SENECA

Aforismi di Lucio Anneo Seneca

Lucio Anneo Seneca, in latino Lucius Annaeus Seneca, anche noto come Seneca o Seneca il giovane (Corduba, 4 a.C. – Roma, 65), è stato un filosofo, politico e drammaturgo romano. Ebbe come maestri di filosofia Sozione di Alessandria, Attalo e Papirio Fabiano, appartenenti rispettivamente al neopitagorismo, allo stoicismo e al cinismo. Attorno al 20 d.C. Seneca si recò in Egitto, dove il contatto con la cultura egizia gli permise di confrontarsi con una diversa concezione della realtà politica (in Egitto il principe era ritenuto un dio) e gli offrì una più ampia e complessa visione religiosa. Probabilmente il suo allontanamento da Roma fu dovuto anche a ragioni di prudenza politica, conseguente allo scioglimento da parte di Tiberio della setta dei sestii di cui facevano parte due dei maestri di Seneca. Iniziò l’attività forense e la carriera politica (divenne dapprima questore ed entrò a far parte del Senato) godendo di una notevole fama come oratore, al punto di far ingelosire l’imperatore Caligola, che nel 39 d.C. lo voleva eliminare, soprattutto per la sua concezione politica rispettosa delle libertà civili. Si salvò grazie ai buoni uffici di una amante del princeps, la quale affermava che comunque sarebbe morto presto a causa della sua salute.
Due anni dopo, nel 41, il successore di Caligola, Claudio, lo condannò all’esilio in Corsica con l’accusa di adulterio con la giovane Giulia Livilla (figlia di Germanico), sorella di Caligola. In Corsica Seneca restò fino al 49, quando Agrippina minore riuscì ad ottenere il suo ritorno dall’esilio e lo scelse come tutore del figlio Nerone. Secondo Tacito sarebbero tre i motivi che spinsero Agrippina a questo: l’educazione di suo figlio, attirarsi le simpatie dell’opinione pubblica (Seneca era considerato uomo di grande cultura) e avere stretti rapporti con lui per riuscire ad impadronirsi del potere. Seneca accompagnò l’ascesa al trono del giovane Nerone (54 – 68) e lo guidò durante il suo cosiddetto “periodo del buon governo”, il primo quinquennio del principato. Assunse un grande potere politico, che gli consentì di divenire estremamente ricco. Si narra che avesse una collezione di cento tavoli di cedro. Progressivamente, a causa delle intemperanze del giovane imperatore, tale rapporto si deteriorò. Giustificò come il “male minore” l’esecuzione della madre di Nerone, Agrippina, nel 59, e se ne assunse tutto il peso morale. In seguito, il rapporto con l’imperatore peggiorò e temendo quindi per la propria vita Seneca si ritirò a vita privata, donando a Nerone tutti i suoi averi e dedicandosi interamente ai suoi studi ed insegnamenti. Famoso il suo epistolario con Lucilio, al tempo Governatore della Sicilia, di origine pompeiana. Finalmente assunse quello stile di vita che andava insegnando, dimostrando di essere un amministratore dei suoi beni e non un amministrato. Nerone, tuttavia, continuava a nutrire una crescente insofferenza verso Seneca e Sesto Afranio Burro, Prefetto del Pretorio, morto nel 62. Egli non aspettava che un pretesto per eliminarlo. L’occasione venne col fallimento della congiura dei Pisoni (aprile 65) contro la sua persona, della quale Seneca forse era solamente informato, ma di cui non si sa se sia stato partecipe. Ricevette quindi l’ordine di togliersi la vita.

Aforismi:

• È l’animo che devi cambiare, non il cielo sotto cui vivi.

• La fortuna non esiste: esiste il momento in cui il talento incontra l’occasione.

• Se volete evitare il timore, pensate che bisogna temere ogni cosa.

• Non credere che si possa diventare felici procurando l’infelicità altrui.

• I mali incerti sono quelli che ci tormentano di più.

• Ognuno è infelice nella misura in cui crede di esserlo!

• L’uomo più potente è quello che è padrone di se stesso.

• Solo il saggio è contento delle cose sue; gli sciocchi, invece, sono tormentati dal disgusto di se stessi.

• Che non ti manchi mai la gioia, anzi che ti nasca in casa; e nascerà, purché essa sia dentro a te stesso. Le altre forme di contentezza non riempiono il cuore, sono esteriori e vane. È lo spirito che dev’essere allegro ed ergersi pieno di fiducia al di sopra di ogni evento. Credimi, la vera gioia è austera.

• La religione è considerata vera dalla gente comune, falsa dalle persone sagge, utile dai governanti.

• Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare.

• Da un uomo grande c’è qualcosa da imparare anche quando tace.

• Estremamente breve e travagliata è la vita di coloro che dimenticano il passato, trascurano il presente, temono il futuro: giunti al momento estremo, tardi comprendono di essere stati occupati tanto tempo senza concludere nulla.

• Il sapiente non accetterà entro la soglia di casa sua nessun denaro di provenienza sospetta: non rifiuterà, però, né respingerà le grandi ricchezze dono della fortuna e frutto della virtù.

• Ti indicherò un filtro amoroso senza veleni, senza erbe, senza formule magiche: se vuoi essere amato, ama!

• Dipenderai meno dal futuro se avrai in pugno il presente.

• Non è magnanimo chi è generoso con la roba altrui.

• La filosofia insegna ad agire, non a parlare.

• Tutta l’arte è imitazione della natura.

• Il tempo ci viene portato via, a volte con la forza a volte con abilità, altre volte se ne va senza che noi ce ne accorgiamo, la vergogna peggiore è perdere tempo per la nostra negligenza.

• Le cose che non puoi cambiare a tuo favore è meglio che le sopporti con paienza.

• Si volge ad attendere il futuro solo chi non sa vivere il presente.

• E’ l’animo che devi cambiare, non il cielo sotto cui vivi.

• Chi accoglie un beneficio con animo grato paga la prima rata del suo debito.

• Il fuoco è la prova dell’oro, la sventura quella dell’uomo forte.

• Che giovano a quell’uomo ottant’anni passati senza far niente? Costui non è vissuto, ma si è attardato nella vita; né è morto tardi, ma ha impiegato molto tempo per morire.

• Non è veramente coraggioso colui il cui coraggio non cresce con il pericolo.

• Ci vuole tutta la vita per imparare a vivere e, quel che forse sembrerà più strano, ci vuole tutta la vita per imparare a morire.

• La vita, senza una meta, è vagabondaggio.

• Si può capire il carattere di una persona dal modo in cui accoglie le lodi.

• Ciò che il cuore conosce oggi, la testa comprenderà domani.

• Non credere che si possa diventare felici procurando l’infelicità altrui.

• Sarà quel che dev’essere; ma ciò che è una necessità per chi si ribella, è poco più che una scelta per chi vi si adatta di buon grado.

• I piaceri del palato sono simili ai ladri egiziani, che strangolano con un abbraccio.

• Se la rabbia non è accompagnata dalla forza si espone al disprezzo e al ridicolo; che cosa c’è in effetti di più tiepido di una rabbia che scoppia invano?

Seneca – tratto da “De Ira Libri”

• Il denaro è un bravo servitore e un cattivo padrone.
• Che cosa, dunque è il bene ? E’ la conoscenza della realtà.
E il male ? L’Ignoranza.

• Ci vuole più fatica a vincere se stesso che il nemico.

• Le difficoltà rafforzano la mente, come la fatica rafforza il corpo.

• Non è povero chi ha poco ma chi desidera avere di più.

• Non è mai esistito ingegno senza un poco di pazzia.

• Nulla è eterno e solo poche cose sono durevoli.

• É meglio imparare dalle cose inutili piuttosto che non imparare niente.

• Il più potente è colui che ha se stesso in proprio potere.

• Le cose che non puoi cambiare a tuo favore, è meglio che le sopporti con pazienza.

• Non osiamo affrontare le cose difficili: in realta’ le cono sono difficili solo perche’ non osiamo affrontarle.

• Le ricchezze in mano al sapiente servono, in mano ad uno stolto comandano.

• Le idee migliori sono proprietà di tutti.

• A certe persone farebbe bene se potessero allontanarsi da se stesse.

• Chi si dispiace per aver peccato, è già mezzo innocente.

• Non è mai poco quello che è abbastanza.

• Ci vuole altrettanta magnanimità per riconoscere un favore ricevuto che per renderlo.

• I metalli vili si trovano in superficie :i metalli più ricchi sono invece quelli la cui vena si nasconde nel profondo della terra, ma ricompenseranno con grande abbondanza le fatiche di chi ha profondamente scavato.

• Non interessa tanto sapere quanto vasto sia l’incendio, quanto dove avvampi.

• Nulla costa di più di quello che si è comprato con la preghiera.

• Nulla è più contrario alla guarigione del cambiare spesso i rimedi.

• I difetti degli altri li abbiamo negli occhi, i nostri sono sulle spalle.

• In nessuna cosa più che nella morte dobbiamo seguire l’ispirazione del nostro animo.

• Punizione per alcuni, per altri un dono e per molti, un favore.

• Non si scoprirebbe mai niente se ci si considerasse soddisfatti di quello che si è scoperto.

• É necessario imparare tanto a lungo quanto a lungo si vive.

• Chi insegna impara anche.

• Colui al quale il delitto porta giovamento, quello ne è l’autore.

• Il destino guida chi lo segue, trascina chi si ribella.

• Ciò che è dato con orgoglio ed ostentazione dipende più dall’ambizione che dalla generosità.

• Ogni potere e’ limitato dalla sua breve durata.

• La solitudine é per lo spirito ciò che il cibo é per il corpo.

• Continua ciò che hai cominciato e forse arriverai alla cima, o almeno arriverai in alto ad un punto che tu solo comprenderai non essere la cima.

• La calamità è l’opportunità della virtù.

• Proprio come sceglierò la mia nave quando mi accingerò ad un viaggio, o la mia casa quando intenderò prendere una residenza, così sceglierò la mia morte quando mi accingerò ad abbandonare la vita.

• Talvolta ci vuole coraggio anche a vivere.

• La vita è come una commedia: non importa quanto è lunga, ma come è recitata.

• Il comando più difficile è comandare a se stessi.

• Il tempo rivela la verità.

Seneca – tratto da “Opere Morali”

• Ogni male ha la sua compensazione. Meno è il denaro, meno i problemi; meno i favori, minore è l’invidia. Perfino in quei casi che ci fanno uscir di senno, non è la perdita in se stessa che ci angustia, bensì la nostra valutazione della perdita.

• All’invidia sfuggirai evitando di metterti in mostra, se non ostenterai i tuoi beni, e se saprai godere dentro di te.

• La gloria insegue preferibilmente quelli che la sfuggono.

• Un grande pilota sa navigare anche con la vela rotta.

Seneca, “Lettere a Lucilio”

• Tre sono le dimensioni temporali: passato, presente, futuro; di questi, solo il passato ci appartiene veramente.

• Nessuno è più infelice che la maggior parte di quelli che sono generalmente ritenuti felici.

• L’applauso della folla è la prova dell’empietà di una causa.

• Ogni piacere ha il suo momento culminante quando sta per finire.

• L’amore è una passione cieca che a portare la sua benda a tutti quelli che egli assoggetta.

• Il saggio vince ogni disagio, ma lo sente.

• Una bella donna non è colei di cui si lodano le gambe o le braccia, ma quella il cui aspetto complessivo è di tale bellezza da togliere la possibilità di ammirare le singole parti.

• Molti uomini avrebbero potuto raggiungere la sapienza se non avessero presunto di esservi già giunti.

• Se tu vuoi vincere l’ira, essa non può vincere te.

Seneca – tratto da “De Ira Libri”

• Che bisogno c’è di anticipare le disgrazie e perdere la vita ancor prima di morire?

• Un giorno scoprii un piacere nuovo e proprio mentre lo sperimentavo, un angelo e un diavolo si incontrarono alla mia porta e subito si diedero battaglia; l’uno asserendo, che il mio piacere di nuovo conio, era un vizio e l’altro una virtù… e ancora combattono.

• Verrà nei secoli futuri un tempo in cui l’oceano spezzerà le catene dell’universo e apparirà come un’immensa terra…

• Colui al quale il delitto porta giovamento, quello ne è l’autore.

• Non è perchè le cose sono difficili che non osiamo, ma è perchè non osiamo che sono difficili.

• La via senza una meta, è vagabondaggio.

• Talvolta ci vuole coraggio anche per vivere.

• La vita non sempre va conservata: il bene, infatti, non consiste nel vivere, ma nel vivere bene.

Seneca – tratto da Lettere a Lucilio, ca. 62/65
• Il saggio vivrà quanto deve, non quanto può.
Osserverà dove gli toccherà vivere, con chi, in che modo e che cosa dovrà fare.
Egli bada sempre alla qualità della vita, non alla lunghezza.

Seneca – tratto da Lettere a Lucilio, ca. 62/65

• Non importa morire presto o tardi, ma morire bene o male; morire bene significa sfuggire al pericolo di vivere male.

Seneca – tratto da Lettere a Lucilio, ca. 62/65

• Una vita più lunga non è necessariamente migliore, ma una morte attesa più a lungo è senz’altro peggiore.

Seneca – tratto da Lettere a Lucilio, ca. 62/65
• Troverai anche uomini che hanno fatto professione di saggezza
e sostengono che non si debba fare violenza a sé stessi;
per loro il suicidio è un delitto:
bisogna aspettare il termine fissato dalla natura.
Non si accorgono che in questo modo si precludono la via della libertà?
Averci dato un solo ingresso alla vita,
ma diverse vie di uscita è quanto di meglio abbia stabilito la legge divina.
Dovrei aspettare la crudeltà di una malattia o di un uomo,
quando posso invece sottrarmi ai tormenti e stroncare le avversità?

Seneca – tratto da Lettere a Lucilio, ca. 62/65
• Non è vero che abbiamo poco tempo!
La verità è che ne perdiamo molto…

• La morte spaventa chi, troppo conosciuto dagli altri, muore ignoto a se stesso.

I Dialoghi

Composti nell’arco di venticinque anni, i Dialoghi non sono stati ordinati da Seneca in una raccolta, quale a noi è pervenuta, né sappiamo da chi, quando e con quali criteri essa sia stata effettuata. Il codice più antico, che è anche il più autorevole, l’Ambrosianus (conservato nella Biblioteca Ambrosiana di Milano), risalente all’XI secolo, li elenca in un ordine che non è cronologico e di cui ignoriamo la motivazione. Esso presenta inoltre degli errori di trascrizione, che sono stati corretti da mano ignota nel secolo successivo. Si può perciò determinare, in base al loro contenuto, il periodo in cui le singole monografie sono state scritte, ma non l’anno preciso, anche se poi, per comodità (come noi pure abbiamo fatto), se ne fissa uno ritenuto quale più probabile.

Il primo dialogo, comunque, è la Consolatio ad Marciam, che risale secondo alcuni al 37, secondo altri al 40-41. Vengono poi: il De ira, collocato nel 41 (visto che vi è deplorata la crudeltà di Caligola, morto in quell’anno), la Consolatio ad Helviam, del 42-43, la Consolatio ad Polybium, del 43-44, il De brevitate vitae, del 49-50, il De constantia sapientis, del 55-56, il De vita beata, posto quasi unanimemente nel 58 (dato il riferimento personale a un’accusa mossa in quell’anno a Seneca da un certo Publio Suillio), il De tranquillitate animi, del 61, il De otio, del 62, il De providentia, del 64-65 (alcuni lo pongono invece all’inizio dell’esilio).

Le opere sono 10, distribuite in 12 libri, e cioè 9 costituite da un solo libro ciascuna più il De ira che è diviso in tre libri. In realtà il titolo di dialogo può essere attribuito solo al De tranquillitate animi, giacché nelle altre monografie parla soltanto Seneca, rivolgendosi però a un dedicatario dal quale spesso fa porre alcune domande e obiezioni. Per quanto alcuni preferiscano ordinare questi dialoghi in base all’affinità dell’argomento trattato, noi, nell’esporne in sintesi il contenuto, li citeremo nell’ordine tradizionale, quale appare nel codice sopra accennato.

1. De providentia (La provvidenza). Dedicato a Lucilio, in 6 capitoli, muove dalla domanda Quare multa bonis adversa eveniunt, cioè per quale ragione anche ai buoni capitano molte avversità, a cui segue la risposta che nihil accidere bono viro mali potest: non miscentur contraria, ossia che all’uomo buono non può accadere mai alcunché che possa chiamarsi propriamente un male, inquantoché i contrari non sono mescolabili fra loro. In poche parole, nell’uomo buono il male ha lo scopo di fortificarlo, per cui si risolve praticamente in un bene. È il concetto della «provvida sventura».

2. De constantia sapientis (La fermezza del saggio). Dedicato a Sereno, in 19 capitoli, affronta il problema utrum sapientem extra indignationem an extra iniuriam ponas, se cioè il saggio debba essere collocato al di là dello sdegno o al di là dell’offesa. La risposta è che invulnerabile est non quod non feritur, sed quod non laeditur, ovverosia che è invulnerabile non ciò che non viene colpito, ma ciò che non è danneggiato.

3. De ira (L’ira). Dedicato al fratello Novato, in tre libri, ha come argomento generale le passioni umane (già oggetto di studio in Grecia con Teofrasto e poi nella letteratura stoica del periodo ellenistico) e in particolare l’ira, definita terribile, furibonda, disumana e simile alla follia, la più pericolosa delle passioni, giacché le altre «hanno una componente di calma e di tranquillità» e in ogni caso «si notano», mentre l’ira «risalta». È infatti un vizio che non si sa utrum magis detestabile… sit an deforme, se cioè sia più detestabile o brutto, giacché trasforma anche i lineamenti del volto. Questo dialogo si può raffrontare con l’omonimo trattato Perìorghès di Plutarco, contenuto nelle sue Operette morali (Ethikà).

4. Consolatio ad Marciam (Consolazione a Marcia), in 26 capitoli. Rivolto alla figlia di Cremuzio Cordo (lo storico, autore degli Annales), che lamenta da tre anni la perdita del figlio Metilio, vuole dimostrare, in conclusione, che la morte è un bene, perché libera l’uomo dai molti mali che lo affliggono, che il saggio deve aspettare e accogliere con serenità quello che è l’evento più certo, inevitabile e improvviso della vita, cioè la morte, che nessun bene è coperto da garanzia e che perciò bisogna godere subito dei propri figli e farsi godere da loro, bere quella gioia sino all’ultima stilla, giacché nihil de hodierna nocte promittitur, nihil de hac hora: ciò che ci è dato può esserci tolto entro la prossima notte o addirittura in questo stesso momento.

5. De vita beata (La felicità). Dedicato al fratello Gallione, in 28 capitoli, vuole dimostrare, in polemica con la dottrina epicurea, che la felicità risiede non nel piacere, ma nella virtù (giacché voluptas humile, servile, imbecillum, caducum, mentre la virtù è altum quiddam, excelsum et regale, invictum, infatigabile), e che la saggezza consiste nel non allontanarsi dalla propria natura, che nell’uomo è razionale, per cui la felicità risiede nel conformarsi, appunto, alla propria natura.

6. De otio (La vita contemplativa). Dedicato a Sereno, in 8 capitoli, mutilo sia all’inizio che alla fine, è un elogio della vita contemplativa, la quale sola consente al saggio di vivere in piena comunione con Dio, giacché il mondo sensibile deve annoverarsi inter caduca et ad tempus nata, cioè fra le cose caduche e limitate nel tempo, mentre la contemplazione consente di uscire da tutto ciò che è perituro. Quanto al fatto se il saggio debba partecipare o no alla vita politica, in riferimento alla domanda posta da Sereno (Quid agis, Seneca? Deseris partes?), il filosofo, concludendo, risponde che purtroppo non esiste uno Stato in cui il sapiente possa agire coerentemente con i propri princìpi.

7. De tranquillitate animi (La tranquillità dell’animo). Dedicato ancora a Sereno, in 17 capitoli, tratta un argomento affine a quello del De otio, ricercando quae possint tranquillitatem tueri, quae restituere, quae subrepentibus vitiis resistant, ossia quali cose possano difendere la tranquillità, quali restituirla e quali rimedi esistano contro i vizi che si annidano in noi. (A questo dialogo si richiama un’omonima monografia di Plutarco).

8. De brevitate vitae (La brevità della vita). Dedicato a Paolino, in 20 capitoli, tratta della durata della vita, che secondo l’opinione comune è breve, mentre in realtà non accipimus brevem… sed facimus, cioè essa non è breve di per sé, siamo noi che la rendiamo tale: la vita satis longa est… et in maximarum rerum consummationem large data est si tota bene collocaretur, ovvero, sarebbe bastevole e anzi anche abbondante per portare a termine grandi cose se fosse tutta spesa bene.

9. Consolatio ad Polybium (Consolazione a Polibio), in 18 capitoli. Indirizzato al potente liberto di Claudio, afflitto per la morte di un fratello, il dialogo è in realtà un pretesto per tessere un elogio sperticato dell’imperatore, allo scopo di ottenere il ritorno dall’esilio.Vi si mescolano i temi ricorrenti della letteratura consolatoria, l’ineluttabilità del destino, l’inutilità del dolore e l’esortazione a sopportare con animo forte e sereno le avversità della vita. È l’opera più discussa di Seneca.

10. Consolatio ad Helviam (Consolazione ad Elvia). Indirizzato alla madre, in 20 capitoli, con un tono ben diverso da quello del dialogo precedente e riprendendo un tema già accennato nel De vita beata (l’esilio è un «nome vano»: quid enim est mutare regiones?), vuole dimostrare che per il saggio la condizione dell’esule non è infelice, giacché per lui la vera patria è il mondo, l’esilio non è altro che un mutamento di luogo, e non può togliere all’uomo il vero bene, che è la virtù.

I problemi trattati nei Dialoghi sono presenti in tutta l’opera di Seneca, perché ciò ch’egli si propone è sempre un intento morale. Sono i problemi dibattuti dallo stoicismo, da cui però l’Autore a volte si allontana per esporre il suo pensiero personale (est et mihi censendi ius, De vita beata, III, 2). Le fonti, relative a tutto il pensiero di Seneca, vanno ricercate oltre che nello stoicismo e nell’epicureismo anche nei pitagorici, nei Cinici, in Aristotele,Teofrasto, Posidonio, Panezio e Cicerone. Quella dei Dialoghi è una filosofia pratica (non priva di contraddizioni e di compromessi), che si propone di risolvere i problemi della vita, aiutare l’uomo a conoscersi, a entrare in intima comunione con se stesso, a liberarsi dalle passioni e dai timori, facendo uso della ragione, giacché questa è la prerogativa propria della nostra natura ed è lei, perciò, che bisogna seguire.

Quello di Seneca è un cammino ideale – realizzabile solo nel profondo dell’animo – a cui non corrisponde, e forse non potrà mai corrispondere, sul piano pratico, una vita pienamente conforme, giacché la materia non è sorda solo all’intenzione dell’arte. In ciò sta il limite dell’uomo, nel non riuscire a fare esattamente e pienamente quello che si vuole, come nel non riuscire a dire esattamente e pienamente quello che si pensa e si sente. Anche Seneca si trova in questa «disagguaglianza», nel senso che la parola, in quanto suono articolato convenzionale, molte volte non s’accorda, è insufficiente, «corta», al suo concetto, per cui egli risulta confuso, intricato, si ripete, compie passaggi bruschi, usa vocaboli non sempre appropriati, congiunzioni conclusive invece che dichiarative («dunque» al posto di «infatti») e viceversa.

Di fronte a questi difetti un traduttore – che voglia rendere più chiaro e convincente il pensiero di Seneca (tanto più quando la sua opera è destinata al grande pubblico) – non può attenersi alla lettera. Che significa, per esempio, «Il tuo podere è più curato di quanto richiede la necessità naturale»? Sarà più esatto dire: «Il tuo podere produce più di quanto non richiedano i tuoi bisogni naturali». Così quando l’Autore dice che il saggio può non accedere alla vita politica «se la strada è impraticabile» sarà opportuno aggiungere «per lui», in quanto gli altri possono praticarla benissimo. Se poi traduciamo «Il piacere accompagni la virtù, come l’ombra che procede accanto al corpo», perché non precisare «senza confondersi con lui»? (Comunque solo gli esperti, che via via consultino il testo latino, possono comprendere le finezze e i pregi di una buona traduzione).

C’è poi, nello stile di Seneca, un tono oratorio, che rispecchia non solo la cultura del suo tempo ma la sua stessa natura. Uno stile che non piacque a Quintiliano, a Frontone e a Gellio, che lo trovavano corruptum et omnibus vitiis fractum (Quint.), vedendovi verborum sordes et illuvies… verba modulate collocata et effeminate fluentia, e consideravano la sua eloquenza mollibus et febriculosis prunuleis insitam, cioè «disseminata di prugnettine sfatte e malaticce», di disgustose ripetizioni e noiose sentenze, nonché perniciosissima per i giovani, a causa dei molti e seducenti difetti. Dei quali probabilmente, sia pure in parte, era consapevole Seneca stesso, che, accanto all’analisi quotidiana del suo stile di vita, dei suoi vizi e delle sue passioni, avrà fatto anche quella del suo modo di scrivere. C’è un passo del De tranquillitate animi che, pur se messo in bocca a Sereno, il dedicatario, è sotto sotto una confessione del- l’Autore. Scrive Seneca:

Sono convinto che in un’opera si debba guardare principalmente al contenuto, ch’è la molla di ogni discorso, subordinando le parole all’argomento, in modo che questo possa svilupparsi senza sforzo e pervenire là dove si vuole arrivare. Scrivere in una forma semplice, per passatempo, senza battere la grancassa ma solo a nostro uso e consumo: ci si affatica di meno lavorando così, alla giornata. Questo mi dico, ma poi, quando la mente torna a innalzarsi a grandi e nobili concetti, allora ecco che mi riprende il gusto della parola forbita e non mi basta più solo pensare, voglio anche esprimermi in un modo più elevato, adeguato alla dignità del contenuto, sicché, dimentico di quelle norme e di quella semplicità che prima m’ero imposto, mi lascio trascinare dall’enfasi, parlando con un linguaggio che non è più mio.

Comunque, nell’antichità furono soprattutto i giovani a leggere Seneca e ad amarlo: solus hic fere in manibus adulescentium fuit, dice Quintiliano, il quale riconosce tuttavia che Seneca ebbe molte e grandi qualità, prontezza e ricchezza d’ingegno, grande cultura, impegno eccezionale, ma che in filosofia fu parum diligens, ovvero poco preciso. Non c’è stata epoca che non lo abbia studiato e ammirato, perché al di là dei suoi difetti di stile, vuoi dell’uomo, vuoi dello scrittore, sprigiona una forza innegabile, che avvince e commuove. Concetto Marchesi, dopo aver esordito dicendo che Seneca «è lo scrittore più moderno della letteratura latina, ed è l’unico che ci parli ancora come fosse vivo nella lingua morta di Roma», conclude affermando che il suo stile, «fatto di frasi brevi, staccate, acute, luminose, improvvise, che incalzano spesso una medesima cosa per colpirla da più lati sino in fondo, è – fra le pagine degli scrittori latini – quello che parla a noi il linguaggio più vivo».

Il De constantia sapientis

Che cos’è, innanzitutto, la saggezza? Secondo la definizione data dai vocabolari è la «capacità di valutare esattamente e di affrontare con lucidità e misura gli eventi e le situazioni, dando loro la giusta importanza alla luce delle esperienze passate, della propria prudenza e del proprio equilibrio interiore» (Battaglia, Grande Dizionario della Lingua Italiana). Più dettagliatamente, saggio (dal lat. class. sàpere, nel senso di «aver senno», «ragionare», «capire», poi lat. volg. sapius e provenz. sage) è «colui che possiede, sul fondamento di un’approfondita esperienza della vita, uno stabile equilibrio intellettuale e morale e, di conseguenza, si comporta in modo prudente e con ponderatezza e assennatezza, agendo a ragion veduta, evitando azioni inconsulte o inutili rischi, non commettendo imprudenze» (op. cit.). Il saggio per un verso si contrappone allo stolto e per un altro al sapiente. Il sapiente, infatti, nel nostro significato di «colui che sa», non è necessariamente saggio, come il saggio, d’altronde, non è necessariamente sapiente. Tradurre perciò il sapiens latino, quando significa «saggio», con «sapiente», come alcuni fanno, non è esatto. Sapienza e saggezza furono considerate sostanzialmente la stessa cosa, nel senso di condotta razionale della vita umana, sino ad Aristotele, ma con lui cominciarono ad essere due concetti distinti.

La saggezza, o almeno la vera saggezza, è però qualche cosa di molto più profondo e più alto che non l’assennatezza, l’equilibrio interiore, la prudenza, la ponderatezza nell’agire e nel giudicare, qualità che si possono riscontrare in una persona di buon senso e che sono tipiche della vecchiaia. Il vero saggio accanto alle qualità sopra elencate ne possiede altre, che solo raramente si possono acquisire.

Il saggio di Seneca, che poi è quello degli Stoici, e in parte degli Epicurei, è colui che guarda le cose dall’alto, che ha raggiunto l’imperturbabilità, il distacco dalle passioni e da tutto ciò ch’è terreno, che non ha paura di nulla, nemmeno della morte, e non trema neppure di fronte al crollo dell’universo (Seneca, Nat. quaest. V, 32, 3). È quel che dice anche Orazio in Odi III, 3, 7-8: si fractus inlabatur orbis / impavidum ferient ruinae: «gli crolli addosso il mondo, resta / impassibile a tanta rovina». Quanto a Lucrezio, egli ci offre della imperturbabilità del saggio un’immagine stupenda nel De rerum natura (II, 1-4):

Suave, mari magno turbantibus aequora ventis,

e terra magnum alterius spectare laborem;

non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,

sed quibus ipse malis careas quia cernere suave est.

Dolce è guardare dalla riva il grande

affannarsi degli uomini sul mare

agitato dai venti, non perché

veder soffrire gli altri sia piacevole,

ma perché dolce, appunto, è constatare

da quali mali siamo immuni noi.

Il saggio degli Stoici è un uomo forte e qui fortis est, dice Cicerone (Tusc. III, 7, 14), idem est fidens… Qui autem est fidens, is profecto non extimescit: discrepat enim a timendo confidere. Atqui, in quem cadit aegritudo, in eundem timor… Nemo sapiens nisi fortis: non cadet ergo in sapientem aegritudo: «chi è forte è anche sicuro di sé, e chi è sicuro di sé non ha paura: l’esser sicuri di sé, infatti, non va d’accordo con l’aver paura. Chi è colpito da un’infermità s’intimorisce, ma, come nessuno può essere saggio se al tempo stesso non è forte, così nessuna infermità può capitare all’uomo saggio».

La dote fondamentale del saggio stoico è la virtus, mediante la quale si consegue la firmitas animi e la pax (Seneca, Epist. 78,16). Il saggio, infatti, non si lamenta delle sventure, che non possono toccarlo perché provengono dalla sorte, la quale non interviene nella vita di lui, non varca la soglia della sua casa, che ovviamente è piccola, modesta, senza pompa, dotata solo delle cose necessarie ai suoi bisogni naturali (Seneca, De const. sap. XV, 4-5). Il saggio non disdegna di vivere, ma la sua vita è ben diversa da quella degli altri uomini. Egli «basta a se stesso per vivere felice, non semplicemente per vivere: per vivere, infatti, gli occorrono molte cose, mentre per vivere felice gli serve solo un animo puro, fiero e noncurante della sorte» (Se contentus est sapiens ad beate vivendum, non ad vivendum; ad hoc enim multis illi rebus opus est, ad illum tantum animo sano et erecto et despiciente fortunam, Epist. 9,13). E ancora: «Il saggio non sente la mancanza di niente e tuttavia ha bisogno di molte cose, come le mani, gli occhi e tante altre usuali necessità quotidiane, ma non sente la mancanza di alcuna cosa: sentire infatti la mancanza di qualcosa implica necessità, mentre per il saggio niente è indispensabile» (ibid.).

Ma il saggio stoico, come non disdegna di vivere, così è pronto a morire, in qualsiasi momento, anche di propria mano, e ce ne dà una prova Seneca stesso col suo suicidio. Anche il saggio epicureo non esita a darsi la morte, se ritiene che ciò sia meglio, e se mai è toccato dal dolore ha in sé una tale forza che più che soffrire gode. Dice Epicuro che anche se venisse bruciato nel toro di Falaride (il famoso tiranno di Agrigento del VI secolo a.C., che rinchiudeva i suoi nemici in un toro di bronzo bruciandoli vivi, e le loro grida, per effetto del rimbombo sembravano dei muggiti), il saggio direbbe: «Quanto è dolce tutto ciò, quanto non me ne curo».

Secondo Seneca si può diventare saggi in due modi, o attraverso il distacco dal mondo, conducendo una vita contemplativa, o, al contrario, approfondendo il contatto col mondo in una vita attiva volta al bene comune, nello spirito di una fratellanza universale estesa ai nostri nemici. Dum inter homines sumus, colamus humanitatem, egli dice nel De ira (III, 43,4). Così la pensa Quintiliano, secondo cui il vero saggio è qui non secretis disputationibus sed rerum experimentis atque operibus vere civilem virum exhibeat, cioè «colui che si mostra veramente umano non nelle sue solitarie elucubrazioni, ma nella vita pratica» (XII, 2, 7-8).

Quanto alla prima via già Platone e Aristotele avevano sostenuto che il fine della vita umana è la contemplazione, intesa come una forma di intuizione – più che di conoscenza effettiva – della verità, non però fine a se stessa ma quale mezzo per una buona e giusta condotta nella vita pratica. Epittèto (un filosofo frigio del I secolo, che, ridotto in schiavitù, si lasciò storpiare dal suo crudele padrone con una impassibilità veramente unica, tanto da meritarsi l’appellativo di «grande missionario dello Stoicismo») dichiara che è vergognoso per l’uomo cominciare e finire la vita nello stesso modo degli altri esseri che sono privi di ragione. «La natura umana», egli dice, «termina nella contemplazione, nella comprensione delle cose e in una condotta di vita in armonia con la natura. Cercate dunque di non morire senza aver contemplato queste cose» (dalle Diatribe). Anche Nietzsche esalta il valore della contemplazione contro quello della vita attiva, responsabile di molte degenerazioni: «Bisogna confessare», egli dice, «che il nostro tempo è povero di grandi moralisti, che Pascal, Epittèto, Seneca, Plutarco sono poco letti, che lavoro e attività – normalmente al seguito della gran dea Salute – sembrano a volte infuriare come una malattia. Poiché manca il tempo per pensare e la calma nel pensare, non si medita più sulle opinioni divergenti: ci si accontenta di odiarle» (Umano, troppo umano, I, 282).

Tuttavia una saggezza piena e perfetta è quasi impossibile e lo stesso Seneca lo riconosce quando dice che di saggi ne nasce uno magnis aetatum intervallis, «a lunghi intervalli di tempo» (De const. sap. VII, 1) o ogni cinquecento anni, come la Fenice (Epist. 42,1). Il Leopardi nega che tale saggezza sia realizzabile. «Se il nostro corpo», egli dice, «è tutto in mano della fortuna, e soggetto per ogni parte all’azione delle cose esteriori, temeraria cosa è il dire che l’animo, il quale è tutto e sempre soggetto al corpo, possa essere indipendente dalle cose esteriori e dalla fortuna. Conchiudo che quello stesso perfetto sapiente, quale lo volevano gli antichi, quale mai non esistette, quale non può essere se non immaginario, tale ancora, sarebbe interamente suddito della fortuna, perché in mano di essa fortuna sarebbe interamente quella stessa ragione sulla quale egli fonderebbe la sua indipendenza dalla fortuna medesima» (Zibaldone, p. 2803). Nel Preambolo alla sua traduzione del Manuale di Epittèto il Leopardi non nega la saggezza, ma sostiene che essa poggia sulla debolezza, non sulla forza, anche se in seguito riconoscerà che quella debolezza è la vera forza del saggio, ravvisando nella piccola e flessibile pianta della ginestra il simbolo della saggezza; una saggezza che consiste nell’accettazione del proprio stato, nel piegare il capo di fronte alle avversità, per lasciarle passare senza esserne travolti e uscendone così vincitori. Si può essere saggi, quindi, anche nel dolore, o passando attraverso la sofferenza (come il Buddha), e persino avendo una visione pessimistica della vita e del mondo (come l’autore dell’Ecclesiaste, uno dei sette libri sapienziali, secondo cui è addirittura inutile essere saggi: «Vanità delle vanità», dice Qohélet, «tutto è vanità… Pure a me toccherà la sorte dello stolto! E allora a che pro ho cercato di esser savio?»).

Quale saggezza, dunque? Quella che si ricerca e si consegue anche in mezzo alle agiatezze e ai piaceri, come voleva Epicuro (e Seneca stesso non esclude questa possibilità), quella che si conquista a prezzo di privazioni e di sofferenze, fisiche e morali, o quella che, più sbrigativamente, si raggiunge ritirandosi, magari a vent’anni, completamente dal mondo? Secondo Buddha il distacco dev’essere interiore più che esteriore, secondo Eckhart, un pensatore cristiano del Trecento, il saggio deve starsene «in pace e in quiete, in modo che Dio possa parlare e agire in lui mentre egli attende semplicemente l’iniziativa divina» (Sermoni tedeschi). I grandi mistici cristiani ravvisano la saggezza nella «disposizione permanente del cuore», e Teilhard de Chardin – sostenitore del mondo quale creazione continua, o continua «teofania» – dice che il saggio non deve rifiutare ma sublimare dentro di sé tutti quei moti che Dio ha infuso nell’universo. Solo così, egli afferma, si potrà realizzare l’equilibrio, l’armonia e l’unità (Le milieu divin). È la stessa concezione espressa da Aurobindo, un grande saggio dell’India, che ritiene possibile quella condizione non solo nei santi e nei santoni che vivono isolati dal mondo, ma anche in coloro che praticano ogni tipo di attività. Krishnamurti, un altro grande saggio indiano del nostro tempo, consiglia invece di far piazza pulita di tutto, di partire da zero, perché soltanto in questo modo, egli dice, si può raggiungere una saggezza autentica e una più sicura verità. Ma c’è, soprattutto, l’esempio del Cristo, testimone insuperabile di una saggezza che si realizza nella coesistenza, equilibrata ed armonica, delle due nature che sono in noi, quella umana e quella divina.

È dunque indispensabile alla saggezza l’imperturbabilità? Di fronte a certe scene di miseria e di sofferenza nemmeno il saggio può sottrarsi ad un senso di pena e di sdegno, pur sapendo che quelle scene sono un riflesso di Dio (e ciò addolcisce e sublima il suo dolore): ma quella pena e quello sdegno non intaccano la sua saggezza, il suo equilibrio interiore, l’armonia ch’egli vede e sente in tutte le cose, anche e proprio attraverso il male ed il dolore. «Le contaminazioni leggere sofferte dal saggio», dice Rama-krishna, «non hanno molta importanza: anche la luna ha le sue macchie, che però non le impediscono affatto di emettere la sua luce» (Alla ricerca di Dio). Seneca, del resto, non nega al saggio il dolore, né gli attribuisce l’insensibilità e la durezza della pietra: i mali, dice, egli «li avverte, ma nel medesimo istante li domina, ne guarisce, ne cancella le tracce» (De const. sap. X, 4).

Ma la vera saggezza consiste anche nell’avere delle cose una visione del tutto particolare: il vero saggio, cioè, vede la vita e il mondo come un’illusione, come un gioco dialettico di Dio, che considera l’unico e autentico artefice di tutto ciò che accade, o, più precisamente, si manifesta, l’universo essendo per lui nient’altro che una proiezione della divina realtà. Solo il saggio, il vero saggio, ha il privilegio di scoprire il gioco (e in ciò si rivela anche sapiente). Egli vede le vicende del mondo come la Storia di Dio proiettata sopra uno schermo, e perciò ne accetta e ne asseconda il gioco, e quante volte, che vinca o che perda, le labbra gli si schiudono al sorriso, in una sorta di complicità! In questa Storia egli può essere spettatore o attore, può essere un mistico o un guerriero (come Arjuna, l’eroe della Bhagavad Gita), ma in ogni caso porta sempre dentro di sé la consapevolezza che tutto rientra nel gioco, che tutto è già scontato, e quindi osserva con distacco, non senza un certo divertimento, l’affaccendarsi degli uomini che vanno di qua e di là come delle pedine sopra una scacchiera, ignare d’ogni mossa, ignare d’ogni evento, nonché del gioco stesso e della loro stessa inconsistenza.

Il De constantia sapientis affronta un aspetto particolare del saggio e cioè il suo atteggiamento di fronte alle offese. Composto fra il 55 e il 56 e dedicato ad Anneo Sereno, sovrintendente delle guardie imperiali (un epicureo che Seneca si propone di convertire allo Stoicismo e a cui dedicherà anche il De otio e il De tranquillitate animi), il dialogo reca già indicato il contenuto nel sottotitolo, in cui è detto nec iniuriam nec contumeliam accipere sapientem, cioè che il saggio non può essere toccato da alcun tipo di offesa, un tema che, per ciò che riguarda l’impassibilità del saggio, ricorre anche nel De providentia e nella Consolatio ad Helviam matrem. Cosa sono l’iniuria e la contumelia? L’iniuria (da in-ius, o in-iustitia) è un’offesa «contro il diritto», o «contro la giustizia», la contumelia è anch’essa un’offesa, consistente, però, in parole o invettive rivolte ad altri direttamente, a voce o per iscritto, allo scopo di lederne l’onore: un vilipendio, dunque, un atto di disprezzo, come testimonia la derivazione del vocabolo da contemnere, che significa appunto «disprezzare». Seneca la considera meno grave dell’ingiuria, precisando, a dimostrazione di ciò, che «le leggi non la ritengono passibile di alcuna sanzione». Tradurre dunque contumelia col termine generico di «offesa» (come fanno alcuni) non è esatto. C’è chi rende iniuria con «offesa grave» e contumelia con «offesa lieve», ma è una distinzione inutile, tantopiù che i Romani generalmente – e non alcuni, come dice Seneca – ritenevano la contumelia più grave, appunto perché muoveva da un sentimento di disprezzo. Noi, tagliando la testa al toro, abbiamo reso iniuria e contumelia con i loro esatti corrispondenti «ingiuria» e «contumelia», ricorrendo a volte, anche per evitare ripetizioni, al termine generico di «offesa», ma solo riguardo all’iniuria.

Per dare subito un’idea del suo modello di saggezza, Seneca dice che fra il saggio stoico e tutti quanti gli altri saggi c’è la stessa differenza che passa fra i maschi e le femmine, nel senso che gli uni sono nati per comandare, le altre per obbedire, e paragona i saggi non stoici ai medici di famiglia, che curano le malattie non come dovrebbero, ma come vogliono i malati. I saggi stoici, invece, virilem ingressi viam, non si preoccupano che la «cura» sia gradevole, ma mirano solo a liberarci al più presto dalla schiavitù dei nostri mali. Parlando poi del saggio in generale, Seneca dice che egli non può essere toccato da nessuna ingiuria o contumelia, perché, attraverso l’esercizio continuo della virtù che lo ha abituato a sopportare ogni sorta di offese, ha raggiunto l’imperturbabilità. Egli è simile a quei corpi che il fuoco non riesce a distruggere, o all’acciaio, contro cui si spuntano gli attrezzi che cercano di scalfirlo, o ancora a certi scogli che, per quanto flagellati per secoli dalle onde, non mostrano alcuna traccia della loro violenza. E cita gli esempi di Catone Uticense – che, preso a schiaffi, non reagì, né perdonò l’offesa, ma negò semplicemente che gli fosse stata fatta (dimostrando così, con l’ignorarla, maggiore magnanimità che perdonandola) – e del filosofo greco Stilpone, il quale, avendo perso ogni cosa nella distruzione della sua città, dichiarò che nulla aveva perduto, dal momento che i suoi veri beni – la virtù, la saggezza, l’imperturbabilità – erano sempre con lui.

Di fronte alle offese, precisa Seneca, l’atteggiamento degli Epicurei è sostanzialmente diverso da quello degli Stoici, giacché i primi sostengono che per il saggio esse sono tollerabili, i secondi che non esistono neppure. Le offese, dice poi, le fanno gli sprovveduti e perciò non possono essere prese in considerazione, così come non si ritengono offensive le parole ingiuriose di un bambino. Bambini, infatti, sono considerati da Seneca tutti quelli che offendono. Quanto alla donna, egli si chiede (XIV), quale offesa può recare «un essere irriflessivo, selvatico e incapace di controllare le proprie passioni?». Eppure – osserva meravigliato – «alcuni arrivano a tal punto di stupidità da ritenere di poter essere offesi da una donna» (cioè da un essere inferiore, che, come ha detto all’inizio del dialogo, è nato per obbedire). Rimprovera poi coloro che offendono, ma aggiunge che proprio perché le offese ci sono la saggezza mostra la sua forza (se non ci fossero le tentazioni non ci sarebbe la virtù). Ci esorta infine a consolarci pensando che prima o poi qualcuno, punendo chi l’ha offeso, vendicherà anche noi, e, a conferma di ciò, cita l’esempio di Caligola, che a furia d’insultare la gente si ebbe la morte che meritava.

Anche in questo dialogo non sempre le argomentazioni di Seneca a sostegno del suo pensiero sono chiare e convincenti. La stessa immagine che egli ci dà del saggio non è del tutto coerente, ma il dialogo è molto vivo, sia per gli esempi felici ed appropriati ricavati dalla vita quotidiana, sia per il rapporto che Seneca riesce ad instaurare con le persone di qualunque ceto e cultura, specialmente nella parte finale, in cui ci esorta a sopportare serenamente qualunque tipo di offesa, mostrandoci degni del nome di uomini.

De constantia sapientis

I. (1) Tantum inter Stoicos, Serene, et ceteros sapientiam professos interesse quantum inter feminas et mares non immerito dixerim, cum utraque turba ad vitae societatem tantundem conferat, sed altera pars ad obsequendum, altera imperio nata sit. Ceteri sapientes molliter agunt et blande, ut fere domestici et familiares medici aegris corporibus non qua optimum et celerrimum est medentur, sed qua licet; Stoici, virilem ingressi viam, non ut amena ineuntibus videatur curae habent, sed ut quam primum nos eripiat et in illum editum verticem educat, qui adeo extra omnem teli iactum surrexit ut supra fortunam emineat. (2) «At ardua per quae vocamur et confragosa sunt». Quid enim? Plano aditur excelsum? Sed ne tam abrupta quidem sunt quam quidam putant. Prima tantum pars saxa rupesque habet et invii speciem, sicut pleraque ex longinquo speculantibus abscisa et conexa videri solent, cum aciem longinquitas fallat, deinde propius adeuntibus eadem illa, quae in unum congesserat error oculorum, paulatim adaperiuntur, tum illis quae praecipitia ex intervallo apparebant redit lene fastigium.

II. (1)1 Nuper, cum incidisset mentio M. Catonis, indigne ferebas, sicut es iniquitatis impatiens, quod Catonem aetas sua parum intellexisset, quod supra Pompeios et Caesares surgentem infra Vatinios posuisset, et tibi indignum videbatur quod illi dissuasuro legem toga in foro esset erepta quodque, a Rostris usque ad Arcum Fabianum per seditiosae factionis manus traditus, voces improbas et sputa et omnes alias insanae multitudinis contumelias pertulisset. (2)2 Tum ego respondi habere te quod rei publicae nomine movereris, quam hinc P. Clodius, hinc Vatinius ac pessimus quisque venundabat et, caeca cupiditate correpti, non intellegebant se, dum vendunt, et venire; pro ipso quidem Catone securum te esse iussi: nullum enim sapientem nec iniuriam accipere nec contumeliam posse, Catonem autem certius exemplar sapientis viri nobis deos immortales dedisse quam Ulixen et Herculem prioribus saeculis. Hos enim Stoici nostri sapientes pronuntiaverunt, invictos laboribus et contemptores voluptatis et victores omnium terrorum. (3)3 Cato non cum feris manus contulit, quas consectari venatoris agrestisque est, nec monstra igne ac ferro persecutus est, nec in ea tempora incidit quibus credi posset caelum umeris unius inniti, excussa iam antiqua credulitate et saeculo ad summam perducto sollertiam. Cum ambitu congressus, multiformi malo, et cum potentiae immensa cupiditate, quam totus orbis in tres divisus satiare non poterat, adversus vitia civitatis degenerantis et pessum sua mole sidentis stetit solus, et cadentem rem publicam, quantum modo una retrahi manu poterat, tenuit, donec abstractus comitem se diu sustentatae ruinae dedit simulque exstincta sunt quae nefas erat dividi: neque enim Cato post libertatem vixit, nec libertas post Catonem. (4) Huic tu putas iniuriam fieri potuisse a populo, quod aut praeturam illi detraxit aut togam, quod sacrum illud caput purgamentis oris aspersit? Tutus est sapiens, nec ulla affici aut iniuria aut contumelia potest.

III. (1) Videor mihi intueri animum tuum incensum et effervescentem. Paras acclamare: «Haec sunt quae auctoritatem praeceptis vestris detrahant: magna promittitis et quae ne optari quidem, nedum credi possint; deinde, ingentia locuti, cum pauperem negastis esse sapientem, non negatis solere illi et servum et tectum et cibum deesse; cum sapientem negastis insanire, non negatis et alienari et parum sana verba emittere et quicquid vis morbi cogit audere; cum sapientem negastis servum esse, idem non itis infitias et veniturum et imperata facturum et domino suo servilia praestaturum ministeria. Ita, sublato alte supercilio, in eadem quae ceteri descenditis, mutatis rerum nominibus. (2) Tale itaque aliquid et in hoc esse suspicor, quod prima specie pulchrum atque magnificum est, nec iniuriam nec contumeliam accepturum esse sapientem. Multum autem interest utrum sapientem extra indignationem an extra iniuriam ponas. Nam, si dicis illum aequo animo laturum, nullum habet privilegium: contigit illi res vulgaris et quae discitur ipsa iniuriarum assiduitate, patientia. Si negas accepturum iniuriam, id est neminem illi tentaturum facere, omnibus relictis negotiis, Stoicus fio». (3) Ego vero sapientem non imaginario honore verborum exornare constitui, sed eo loco ponere quo nulla permittatur iniuria. Quid ergo? Nemo erit qui lacessat, qui tentet? Nihil in rerum natura tam sacrum est quod sacrilegum non inveniat. Sed non ideo divina minus in sublimi sunt, si exsistunt qui magnitudinem multum ultra se positam non tacturi appetant. Invulnerabile est non quod feritur, sed quod non laeditur: ex hac tibi nota sapientem exhibebo. (4) Numquid dubium est quin certius robur sit quod non vincitur quam quod non lacessitur, cum dubiae sint vires inexpertae, at merito certissima firmitas habeatur quae omnes incursus respuit? Sic tu sapientem melioris scito esse naturae si nulla illi iniuria nocet quam si nulla fit. Et illum fortem vimm dicam quem bella non subigunt nec admota vis hostilis exterret, non cui pingue otium est inter desides populos. (5)4 Hoc igitur dico, sapientem nulli esse iniuriae obnoxium. Itaque non refert quam multa in illum coiciantur tela, cum sit nulli penetrabilis. Quomodo quorundam lapidum inexpugnabilis ferro duritia est nec secari adamas aut caedi vel deteri potest, sed incurrentia ultro retundit, quemadmodum quaedam non possunt igne consumi, sed flamma circumfusa rigorem suum habitumque conservant, quemadmodum proiecti quidam in altum scopuli mare frangunt nec ipsi ulla saevitiae vestigia tot verberati saeculis ostentant, ita sapientis animus solidus est et id roboris collegit, ut tam tutus sit ab iniuria quam illa quae rettuli.

IV. (1) «Quid ergo? non erit aliquis qui sapienti facere tentet iniuriam?». Tentabit, sed non perventuram ad eum: maiore enim intervallo a contactu inferiorum abductus est quam ut ulla vis noxia usque ad illum vires suas perferat. Etiam cum potentes et imperio editi et consensu servientium validi nocere intendent, tam citra sapientiam omnes eorum impetus deficient quam quae nervo tormentisve in altum exprimuntur, cum extra visum exsilierint, citra caelum tamen flectuntur. (2)5 Quid? Tu putas tum, cum stolidus ille rex multitudine telorum diem obscuraret, ullam sagittam in solem incidisse, aut demissis in profundum catenis Neptunum potuisse contingi? Ut caelestia humanas manus effugiunt et ab iis qui templa dimunt ac simulacra conflant nihil divinitati nocetur, ita quicquid fit in sapientem proterve, petulanter, superbe, frustra tentatur. (3) «At satius erat neminem esse qui facere vellet». Rem difficilem optas humano generi, innocentiam; et non fieri eorum interest qui facturi sunt, non eius qui pati, ne si fiat quidem, potest. Immo nescio an magis vires sapientia ostendat tranquillitate inter lacessentia, sicut maximum argumentum est imperatoris armis virisque pollentis tuta securitas in hostium terra.

V. (1) Dividamus, si tibi videtur, Serene, iniuriam a contumelia. Prior illa natura gravior est, haec levior et tantum delicatis gravis, qua non laeduntur homines, sed offenduntur. Tanta est tamen animorum dissolutio et vanitas, ut quidam nihil acerbius putent. Sic invenies servum qui flagellis quam colaphis caedi malit et qui mortem ac verbera tolerabiliora credat quam contumeliosa verba. (2) Ad tantas ineptias perventum est ut non dolore tantum, sed doloris opinione vexemur, more puerorum, quibus metum incutit umbra et personarum deformitas et depravata facies, lacrimas vero evocant nomina parum grata auribus et digitorum motus et alia quae impetu quodam erroris improvidi refugiunt. (3) Iniuria propositum hoc habet, aliquem malo afficere. Malo autem sapientia non relinquit locum: unum enim illi malum est turpitudo, quae intrare eo ubi iam virtus honestumque est non potest. Ergo, si iniuria sine malo nulla est, malum nisi turpe nullum est, turpe autem ad honestis occupatum pervenire non potest, iniuria ad sapientem non pervenit. Nam, si iniuria alicuius mali patientia est, sapiens autem nullius mali est patiens, nulla ad sapientem iniuria pertinet. (4) Omnis iniuria deminutio eius est in quem incurrit, nec potest quisquam iniuriam accipere sine aliquo detrimento vel dignitatis vel corporis vel rerum extra nos positarum. Sapiens autem nihil perdere potest: omnia in se reposuit, nihil fortunae credidit, bona sua in solido habet, contentus virtute, quae fortuitis non indiget ideoque nec augeri nec minui potest (nam et in summum perducta incrementi non habent locum, et nihil eripit fortuna nisi quod dedit; virtutem autem non dat, ideo nec detrahit: libera est, inviolabilis, immota, inconcussa, sic contra casus indurata ut ne inclinari quidem, nedum vinci possit; adversus apparatus terribilium rectos oculos tenet; nihil ex vultu mutat, sive illi dura sive secunda ostentantur). (5) Itaque nihil perdet quod perire sensurus sit; unius enim in possessione virtutis est, ex qua depelli numquam potest. Ceteris precario utitur: quis autem iactura movetur alieni? Quod si iniuria nihil laedere potest ex iis quae propria sapientis sunt, quia, virtute salva, sua salva sunt, iniuria sapienti non potest fieri. (6)6 Megaram Demetrius ceperat, cui cognomen Poliorcetes fuit. Ab hoc Stilpon philosophus interrogatus num aliquid perdidisset: «Nihil» inquit «omnia mea mecum sunt». Atqui et patrimonium eius in praedam cesserat, et filias rapuerat hostis, et patria in alienam dicionem pervenerat, et ipsum rex circumfusus victoris exercitus armis ex superiore loco rogitabat. (7) At ille victoriam illi excussit et se, urbe capta, non invictum tantum, sed indemnem esse testatus est. Habebat enim vera secum bona, in quae non est manus iniectio. At quae dissipata et direpta ferebantur non iudicabat sua, sed adventicia et nutum fortunae sequentia; ideo ut non propria dilexerat. Omnium enim extrinsecus affluentium lubrica et incerta possessio est.

VI. (1) Cogita nunc an huic fur aut calumniator aut vicinus impotens aut dives aliquis regnum orbae senectutis exercens facere iniuriam possit, cui bellum et hostis et ille egregiam artem quassandarum urbium professus eripere nihil potuit. (2)7 Inter micantes ubique gladios et militarem in rapina tumultum, inter flammas et sanguinem stragemque impulsae civitatis, inter fragorem templorum super deos suos cadentium, uni homini pax fuit. Non est itaque quod audax iudices promissum, cuius tibi, si parum fidei habeo, sponsorem dabo. Vix enim credis tantum firmitatis in hominem aut tantam animi magnitudinem cadere. Sed, si prodit in medium qui dicat: (3) «Non est quod dubites an attollere se homo natus supra humana possit, an dolores, damna, ulcerationes, vulnera, magnos motus rerum circa se frementium securus aspiciat, et dura placide ferat et secunda moderate, nec illis cedens nec his fretus unus idemque inter diversa sit, nec quicquam suum nisi seputet esse. (4) En adsum hoc vobis probaturus, sub isto tot civitatum eversore munimenta incussu arietis labefieri et turrium altitudinem cuniculis ac latentibus fossis repente desidere et aequaturum editissimas arces aggerem crescere, at nulla machinamenta posse reperiri quae bene fundatum animum agitent. (5) Erepsi modo e ruinis domus et, incendiis undique relucentibus, flammas per sanguinem fugi; filias meas quis casus habeat, an peior publico, nescio; solus et senior et hostilia circa me omnia videns, tamen integrum incolumemque esse censum meum profiteor: teneo, habeo quicquid mei habui. (6) Non est quod me victum victoremque te credas: vicit fortuna tua fortunam meam. Caduca illa et dominum mutantia ubi sint nescio; quod ad res meas pertinet, mecum sunt, mecum erunt. (7) Perdiderunt isti divites patrimonia, libidinosi amores suos et magno pudoris impendio dilecta scorta, ambitiosi curiam et forum et loca exercendis in publico vitiis destinata; feneratores perdiderunt tabellas, quibus avaritia falso laeta divitias imaginatur: ego quidem omnia integra illibataque habeo. Proinde istos interroga qui flent, qui lamentantur, strictis gladiis nuda pro pecunia corpora opponunt, qui hostem onerato sinu fugiunt». (8)8 Ergo ita habe, Serene, perfectum illum virum, humanis divinisque virtutibus plenum, nihil perdere, Bona eius solidis et inexsuperabilibus munimentis praecincta sunt. Non Babylonios illis muros contuleris, quos Alexander intravit; non Carthaginis aut Numantiae moenia, una manu capta; non Capitolium arcemve, habent ista hostile vestigium. Illa, quae sapientem tuentur, et a flamma et ab incursu tuta sunt, nullum introitum praebent, excelsa, inexpugnabilia, diis aequa.

VII. (1) Non est quod dicas, ita ut soles, hunc sapientem nostrum nusquam inveniri. Non fingimus istud humani ingenii vanum decus nec ingentem imaginem falsae rei concipimus, sed qualem conformamus exhibuimus, exhibebimus, raro forsitan magnisque aetatum intervallis unum (neque enim magna et excedentia solitum ac vulgarem modum crebro gignuntur); ceterum hic ipse M. Cato, a cuius mentione haec disputatio processit, vereor ne supra nostrum exemplar sit. (2) Denique validius debet esse quod laedit eo quod laeditur. Non est autem fortior nequitia virtute: non potest ergo laedi sapiens. Iniuria in bonos nisi a malis non tentatur: bonis inter se pax est. Quod si laedi nisi infirmior non potest, malus autem bono infirmior est, nec iniuria bonis nisi a dispari verenda est, iniuria in sapientem virum non cadit. Illud enim iam non es admonendus, neminem bonum esse nisi sapientem. (3) «Si iniuste» inquis «Socrates damnatus est, iniuriam accepit.» Hoc loco intellegere nos oportet posse evenire ut faciat aliquis iniuriam mihi et ego non accipiam: tamquam si quis rem quam e villa mea subripuit in domo mea ponat, ille furtum fecerit, ego nihil perdiderim. (4) Potest aliquis nocens fieri, quamvis non nocuerit. Si quis cum uxore sua tamquam cum aliena concumbat, adulter erit, quamvis illa adultera non sit. Aliquis mihi venenum dedit, sed vim suam remixtum cibo perdidit: venenum ille dando scelere se obligavit, etiam si non nocuit. Non minus latro est, cuius telum opposita veste elusum est. Omnia scelera etiam ante effectum operis, quantum culpae satis est, perfecta sunt. (5) Quaedam eius condicionis sunt et hac vice copulantur, ut alterum sine altero esse possit, alterum sine altero non possit. Quod dico conabor facere manifestum. Possum pedes movere, ut non curram; currere non possum, ut pedes non moveam. Possum, quamvis in aqua sim, non natare; si nato, non possum in aqua non esse. (6) Ex hac sorte et hoc est de quo agitur: si iniuriam accepi, necesse est factam esse; si est facta, non est necesse accepisse me. Multa enim incidere possunt quae summoveant iniuriam: ut intentatam manum deicere aliquis casus potest et emissa tela declinare, ita iniurias qualescumque potest aliqua res repellere et in medio intercipere, ut et factae sint nec acceptae.

VIII. (1) Praeterea iustitia nihil iniustum pati potest, quia non coeunt contraria; iniuria autem non potest fieri nisi iniuste: ergo sapienti iniuria non potest fieri. Nec est quod mireris si nemo illi potest iniuriam facere: ne prodesse quidem quisquam potest. Et sapienti nihil deest quod accipere possit loco muneris et malus nihil potest dignum tribuere sapiente: habere enim prius debet quam dare; nihil autem habet quod ad se transferri sapiens gavisurus sit. (2) Non potest ergo quisquam aut nocere sapienti aut prodesse, quoniam divina nec iuvari desiderant nec laedi possunt, sapiens autem vicinus proximusque diis consistit, excepta mortalitate similis deo. Ad illa nitens pergensque excelsa, ordinata, intrepida; aequali et concordi cursu fluentia, secura, benigna, bono publico nata, et sibi et aliis salutaria, nihil humile concupiscet, nihil flebit. (3) Qui, rationi innixus, per humanos casus divino incedit animo, non habet ubi accipiat iniuriam: ab homine me tantum dicere putas? Ne a fortuna quidem, quae, quotiens cum virtute congressa est, numquam par recessit. Si maximum illud ultra quod nihil habent iratae leges ac saevissimi domini quod minentur, in quo imperium suum fortuna consumit, aequo placidoque animo accipimus et scimus mortem malum non esse ob hoc ne iniuriam quidem, multo facilius alia tolerabimus, damna et dolores, ignominias, locorum commutationes, orbitates discidia, quae sapientem, etiam si universa circumveniant, non mergunt, nedum ut ad singulorum impulsus maereat. Et, si fortunae iniurias moderate fert, quanto magis hominum potentium, quos scit fortunae manus esse!

IX. (1) Omnia itaque sic patitur ut hiemis rigorem et intemperantiam caeli, ut fervores morbosque et cetera forte accidentia, nec de quoquam tam bene iudicat ut illum quicquam putet consilio fecisse, quod in uno sapiente est. Aliorum omnium non consilia, sed fraudes

et insidiae et motus animorum inconditi sunt, quos casibus adnumerat. Omne autem fortuitum circa nos saevit: et iniuria. (2) Illud quoque cogita, iniuriarum latissime patere materiam illis per quae periculum nobis quaesitum est, ut accusa tore submisso aut criminatione falsa aut irritatis in nos potentiorum odiis quaeque alia inter togatos latrocinia sunt. Est et illa iniuria frequens, si lucrum alicui excussum est aut praemium diu captatum, si magno labore affectata hereditas aversa est et quaestuosae domus gratia erepta. Haec effugit sapiens, qui nescit nec in spem nec in metum vivere. (3) Adice nunc quod iniuriam nemo immota mente accipit, sed ad sensum eius perturbatur, caret autem perturbatione vir ereptus erroribus, moderator sui, altae quietis et placidae. Nam, si tangit illum iniuria, et movet et impellit; caret autem ira sapiens, quam excitat iniuriae species, nec aliter careret ira nisi et iniuria, quam scit sibi non posse fieri. Inde tam erectus laetusque est, inde continuo gaudio elatus. Adeo autem ad offensiones rerum hominumque non contrahitur, ut ipsa illi iniuria usui sit, per quam experimentum sui capit et virtutem tentat. (4) Faveamus, obsecro vos, huic proposito aequisque et animis et auribus adsimus, dum sapiens iniuriae excipitur! Nec quicquam ideo petulantiae vestrae aut rapacissimis cupiditatibus aut caecae temeritati superbiaeque detrahitur: salvis vitiis vestris haec sapienti libertas quaeritur. Non ut vobis facere non liceat iniuriam agimus, sed ut ille omnes iniurias inultas dimittat patientiaque se ac magnitudine animi defendat. (5) Sic in certaminibus sacris plerique vicerunt caedentium manus obstinata patientia fatigando: ex hoc puta genere sapientem, eorum qui exercitatione longa ac fideli robur perpetiendi lassandique, omnem inimicam vim consecuti sunt.

X. (1) Quoniam priorem partem percucurrimus, ad alteram transeamus, qua quibusdam propriis, plerisque vero communibus contumeliam refutabimus. Est minor iniuria, quam queri magis quam exsequi possumus, quam leges quoque nulla dignam vindicta putaverunt. (2) Hunc affectum movet humilitas animi contrahentis se ob dictum factumve inhonorificum: «Ille me hodie non admisit, cum alios admitteret», et: «Sermonem meum aut superbe aversatus est aut palam risit», et: «Non in medio me lecto, sed in imo collocavit», et alia huius notae, quae quid vocem nisi querellas nausiantis animi? In quae fere delicati et felices incidunt; non vacat enim haec notare cui peiora instant. (3) Nimio otio ingenia natura infirma et muliebria et inopia verae iniuriae lascivientia his commoventur, quorum pars maior constat vitio interpretantis. Itaque nec prudentiae quicquam in se esse nec fiduciae ostendit qui contumelia afficitur. Non dubie enim contemptum se iudicat, et hic morsus non sine quadam humilitate animi evenit supprimentis se ac descendentis. Sapiens autem a nullo contemnitur: magnitudinem suam novit, nullique tantum de se licere renuntiat sibi, et omnes has quas non miserias animorum, sed molestias dixerim non vincit, sed ne sentit quidem. (4) Alia sunt quae sapientem feriunt, etiam si non pervertunt, ut dolor corporis et debilitas aut amicorum liberorumque amissio et patriae bello flagrantis calamitas: haec non nego sentire sapientem, nec enim lapidis illi duritiam ferrive asserimus. Nulla virtus est, quae non sentias perpeti. Quid ergo est? Quosdam ictus recipit, sed receptos evincit et sanat et comprimit; haec vero minora ne sentit quidem nec adversus ea solita illa virtute utitur dura tolerandi, sed aut non adnotat aut digna risu putat.

XI. (1) Praeterea, cum magnam partem contumeliarum superbi insolentesque faciant et male felicitatem ferentes, habet quo istum affectum inflatum respuat, pulcherrimam virtutem omnium, animi magnitudinem. Illa quicquid eiusmodi est transcurrit, ut vanas species somniorum visusque nocturnos nihil habentes solidi atque veri. (2) Simul illud cogitat, omnes inferiores esse quam ut illis audacia sit tanto excelsiora despicere. Contumelia a contemptu dicta est, quia nemo nisi quem

contempsit tali iniuria notat; nemo autem maiorem melioremque contemnit, etiam si facit aliquid quod contemnentes solent. Nam et pueri os parentium feriunt, et crines matris turbavit laceravitque infans et sputo aspersit, aut nudavit in conspectu suorum tegenda et verbis obscenioribus non pepercit, et nihil horum contumeliam dicimus. Quare? Quia qui facit contemnere non potest. (3) Eadem causa est cur nos mancipiorum nostrorum urbanitas in dominos contumeliosa delectet, quorum audacia ita demum sibi in convivas ius facit, si coepit a domino, et, ut quisque contemptissimus et in ludibrium est, ita solutissimae linguae est. Pueros quidam in hoc mercantur procaces, et illorum impudentiam acuunt ac sub magistro habent, qui probra meditate effundant, nec has contumelias vocamus, sed argutias. Quanta autem dementia est iisdem modo delectari, modo offendi, et rem ab amico dictam maledictum vocare, a servulo ioculare convicium!

XII. (1) Quem animum nos adversus pueros habemus, hunc sapiens adversus omnes, quibus etiam post iuventam canosque puerilitas est. An quicquam isti profecerunt, quibus animi mala sunt auctique in maius errores, qui a pueris magnitudine tantum formaque corporum differunt, ceterum non minus vagi incertique, voluptatum sine dilectu appetentes, trepidi, et non ingenio, sed formidine quieti? (2)9 Non ideo quicquam inter illos puerosque interesse quis dixerit, quod illis talorum nucumve et aeris minuti avaritia est, his auri argentique et urbium, quod illi inter ipsos magistratus gerunt et praetextam fascesque ac tribunal imitantur, hi eadem in Campo Foroque et in Curia serio ludunt, illi in litoribus harenae congestu simulacra domuum excitant, hi, ut magnum aliquid agentes in lapidibus ac parietibus et tectis moliendis occupati, tutelae corporum inventa in periculum verterunt. Ergo par pueris longiusque progressis, sed in alia maioraque error est. (3)10 Non immerito itaque horum contumelias sapiens ut iocos accipit, et aliquando illos tamquam pueros malo poenaque admonet, non quia accepit iniuriam, sed quia fecerunt et ut desinant facere. Sic enim et pecora verbere domantur, nec irascimur illis cum sessorem recusaverunt, sed compescimus, ut dolor contumaciam vincat. Ergo et illud solutum scies, quod nobis opponitur: quare, si non accepit iniuriam sapiens nec contumeliam, punit eos qui fecerunt? Non enim se ulciscitur, sed illos emendat.

XIII. (1) Quid est autem quare hanc animi firmitatem non credas in virum sapientem cadere, cum tibi in aliis idem notare, sed non ex eadem causa liceat? Quis enim phrenetico medicus irascitur? Quis febricitantis et a frigida prohibiti maledicta in malam partem accipit? (2) Hunc affectum adversus omnes habet sapiens, quem adversus aegros suos medicus, quorum nec obscena, si remedio egent, contrectare nec reliquias et effusa intueri dedignatur, nec per furorem saevientium excipere convicia. Scit sapiens omnes hos qui togati purpuratique incedunt valentes coloratos esse, quos non aliter videt quam aegros intemperantes. Itaque ne succenset quidem si quid in morbo petulantius ausi sunt adversus medentem et, quo animo honores eorum nihilo aestimat, eodem parum honorifice facta. (3)11 Quemadmodum non placebit sibi si illum mendicus coluerit, nec contumeliam iudicabit si illi homo plebis ultimae salutanti mutuam salutationem non reddiderit, sic ne se suspiciet quidem si illum multi divites suspexerint (scit enim illos nihil a mendicis differre, immo miseriores esse: illi enim exiguo, hi multo egent), et rursus non tangetur si illum rex Medorum Attalusve Asiae salutantem silentio ac vultu arroganti transierit. Scit statum eius non magis habere quicquam invidendum quam eius cui in magna familia cura obtigit aegros insanosque compescere. (4)12 Num moleste feram, si mihi non reddiderit nomen aliquis ex his qui ad Castoris negotiantur, nequam mancipia ementes vendentesque, quorum tabernae pessimorum servorum turba refertae sunt? Non, ut puto. Quid enim is boni habet, sub quo nemo nisi malus est? Ergo, ut huius humanitatem inhumanitatemque neglegit, ita et regis: «Habes sub te Parthos et Medos et Bactrianos, sed quos metu contines, sed propter quos remittere arcum tibi non contigit, sed hos deterrimos, sed venales, sed novum aucupantes dominium». (5) Nullius ergo movebitur contumelia: omnes enim inter se differant, sapiens quidem pares illos ob aequalem stultitiam omnes putat. Nam, si semel se demiserit eo ut aut iniuria moveatur aut contumelia, non poterit umquam esse securus; securitas autem proprium bonum sapientis est. Nec committet ut iudicando contumeliam sibi factam honorem habeat ei qui fecit; necesse et enim, a quo quisque contemni moleste ferat, suspici gaudeat.

XIV. (1) Tanta quosdam dementia tenet, ut sibi contumeliam fieri putent posse a muliere. Quid refert quam adeant, quot lecticarios habentem, quam oneratas aures, quam laxam sellam? Aeque imprudens animal est et, nisi scientia accessit ac multa eruditio, ferum, cupiditatum incontinens. Quidam se a cinerario impulsos moleste ferunt et contumeliam vocant ostiarii difficultatem, nomenclatoris superbiam, cubicularii supercilium. O quantus inter ista risus tollendus est, quanta voluptate implendus animus ex alienorum errorum tumultu contemplanti quietem suam! (2) «Quid ergo? Sapiens non accedet adfores quas durus ianitor obsidet?» Ille vero, si res necessaria vocabit, experietur, et illum, quisquis erit, tamquam canem acrem obiecto cibo leniet, nec indignabitur aliquid impendere ut limen transeat, cogitans et in pontibus quibusdam pro transitu dari. Itaque illi quoque, quisquis erit, qui hoc salutationum publicum exerceat donabit: scit emere venalia. Ille pusilli animi est, qui sibi placet quod ostiario libere respondit, quod virgam eius fregit, quod ad dominum accessit et petiit corium. Facit se adversarium qui contendit, et, ut vincat, par fuit. (3) «At sapiens colapho percussus quid faciet?» Quod Cato, cum illi os percussum esset: non excanduit, non vindicavit iniuriam, ne remisit quidem, sed factam negavit; maiore animo non agnovit quam ignovisset. Non diu in hoc haerebimus: quis enim nescit nihil ex his quae creduntur mala aut bona ita videri sapienti ut omnibus? (4) Non respicit quid homines turpe iudicent aut miserum; non it qua populus, sed, ut sidera contrarium mundi iter intendunt, ita hic adversus opinionem omnium vadit.

XV. (1) Desinite itaque dicere: «Non accipiet ergo sapiens iniuriam, si caedetur, si oculus illi eruetur? Non accipiet contumeliam, si obscenorum vocibus improbis per forum agetur, si in convivio regis recumbere infra mensam vescique cum servis ignominiosa officia sortitis iubebitur, si quid aliud ferre cogetur eorum quae excogitari pudori ingenuo molesta possunt?». (2) In quantumcumque ista vel numero vel magnitudine creverint, eiusdem naturae erunt: si non tangent illum parva, ne maiora quidem; si non tangent pauca, ne plura quidem. Sed ex imbecillitate vestra coniecturam capitis ingentis animi, et, cum cogitastis quantum putetis vos pati posse, sapientis patientiae paulo ulteriorem terminum ponitis. At illum in aliis mundi finibus sua virtus collocavit, nihil vobiscum commune habentem. (3) Quaere et aspera et quaecumque toleratu gravia sunt audituque et visu refugienda: non obruetur eorum coetu et, qualis singulis, talis universis obsistet. Qui dicit illud tolerabile sapienti, illud intolerabile et animi magnitudinem intra certos fines tenet, male agit: vincit nos fortuna, nisi tota vincitur. (4) Ne putes istam stoicam esse duritiam, Epicurus, quem vos patronum inertiae vestrae assumitis putatisque mollia ac desidiosa praecipere et ad voluptates ducentia: «Raro, inquit, sapienti fortuna intervenit». Quam paene emisit viri vocem! Vis tu fortius loqui et illam ex toto summovere! (5) Domus haec sapientis angusta, sine cultu, sine strepitu, sine apparatu, nullis asservatur ianitoribus turbam venali fastidio digerentibus, sed per hoc limen vacuum et ab ostiariis liberum fortuna non transit: scit non esse illic sibi locum, ubi sui nihil est.

XVI. (1) Quod si Epicurus quoque qui corpori plurimum indulsit, adversus iniurias exsurgit, quid apud nos incredibile videri potest aut supra humanae naturae mensuram? Ille ait iniurias tolerabiles esse sapienti, nos iniurias non esse. (2) Nec enim est quod dicas hoc naturae repugnare: non negamus rem incommodam esse verberari et impelli et aliquo membro carere, sed omnia ista negamus iniurias esse; non sensum illis doloris detrahimus, sed nomen iniuriae, quod non potest recipi virtute salva. Uter verius dicat videbimus; ad contemptum quidem iniuriae uterque consentit. Quaeris quid inter duos intersit? Quod inter gladiatores fortissimos, quorum alter premit vulnus et stat in gradu, alter respiciens ad clamantem populum significat nihil esse et intercedi non patitur. (3) Non est quod putes magnum quo dissidemus: illud quo de agitur, quod unum ad nos pertinet, utraque exempla hortantur, contemnere iniurias et quas iniuriarum umbras ac suspiciones dixerim, contumelias, ad quas despiciendas non sapiente opus est viro, sed tantum consipiente, qui sibi possit dicere: «Utrum merito mihi ista accidunt an immerito? Si merito, non est contumelia, iudicium est; si immerito, illi qui iniusta facit erubescendum est». (4) Et quid est illud quod contumelia dicitur? In capitis mei levitatem iocatus est et in oculorum valetudinem et in crurum gracilitatem et in staturam: quae contumelia est, quod apparet audire? Coram uno aliquid dictum ridemus, coram pluribus indignamur, et eorum aliis libertatem non relinquimus, quae ipsi in nos dicere assuevimus; iocis temperatis delectamur, immodicis irascimur.

XVII. (1)13 Chrysippus ait quendam indignatum quod illum aliquis vervecem marinum dixerat. In senatu flentem vidimus Fidum Cornelium, Nasonis Ovidii generum, cum illum Corbulo struthocamelum depilatum dixisset: adversus alia maledicta mores et vitam convulnerantia frontis illi firmitas adversus hoc tam absurdum lacrimae prociderunt. Tanta animorum imbecillitas est, ubi ratio discessit! (2) Quid quod offendimur si quis sermonem nostrum imitatur, si quis incessum, si quis vitium aliquod corporis aut linguae exprimit? Quasi notiora illa fiant alio imitante quam nobis facientibus! Senectutem quidam inviti audiunt et canos et alia ad quae voto pervenitur. Paupertatis maledictum quosdam perussit, quam sibi obiecit quisquis abscondit. Itaque materia petulantibus et per contumeliam urbanis detrahitur, si ultro illam et prior occupes: nemo risum praebuit qui ex se cepit. (3) Vatinium, hominem natum et ad risum et ad odium, scurram fuisse venustum ac dicacem memoriae proditum est: in pedes suos ipse plurima dicebat et in fauces concisas; sic inimicorum, quos plures habebat quam morbos, et in primis Ciceronis urbanitatem effugerat. Si hoc potuit ille duritia oris, qui assiduis conviciis pudere dedidicerat, cur is non possit qui studiis liberalibus et sapientiae cultu ad aliquem profectum pervenerit? (4) Adice quod genus ultionis est eripere ei qui fecit factae contumeliae voluptatem. Solent dicere: «O miserum me! Puto, non intellexit». Adeo fructus contumeliae in sensu et indignatione patientis est. Deinde non deerit illi aliquando par: invenietur qui te quoque vindicet.

XVIII. (1) C. Caesar, inter cetera vitia quibus abundabat contumeliosus, mira libidine ferebatur omnes aliqua nota feriendi, ipse materia risus benignissima: tanta illi palloris insaniam testantis foeditas erat, tanta oculorum sub fronte anili latentium torvilas, tanta capitis destituti et emendicaticiis capillis aspersi deformitas. Adice obsessam saetis cervicem, et exilitatem crurum, et enormitatem pedum. Immensum est si velim singula referre per quae in parentes avosque suos contumeliosus fuit, per quae in universos ordines; ea referam quae illum exitio dederunt. (2) Asiaticum Valerium in primis amicis habebat, ferocem virum et vix aequo animo alienas contumelias laturum. Huic in convivio, id est in contione, voce clarissima qualis in concubitu esset uxor eius obiecit. Di boni! hoc virum audire! Et usque eo licentiam pervenisse ut, non dico consulari, non dico amico, sed tantum marito princeps et adulterium suum narret et fastidium! (3)14 Chaereae contra, tribuno militum, sermo non pro manu erat, languidus sono et, ni facta nosses, suspectior. Huic Gaius signum petenti modo Veneris, modo Priapi dabat, aliter atque aliter exprobrans armato mollitiam; haec ipse perlucidus, crepidatus, auratus. Coegit itaque illum uti ferro, ne saepius signum peteret. Ille primus inter coniuratos manum sustulit, ille cervicem mediam uno ictu decidit. Plurimum deinde undique publicas ac privatas iniurias ulciscentium gladiorum ingestum est, sed primus vir fuit qui minime visus est. (4) At idem Gaius omnia contumelias putabat, ut sunt ferendarum impatientes faciendarum cupidissimi. Iratus fuit Herennio Macro quod illum Gaium salutaverat, nec impune cessit primipilari quod Caligulam dixerat: hoc enim in castris natus et alumnus legionum vocari solebat, nullo nomine militibus familiarior umquam factus; sed iam Caligulam convicium et probrum iudicabat cothurnatus. (5) Ergo hoc ipsum solacio erit, etiam si nostra facilitas ultionem omiserit, futurum aliquem qui poenas exigat a procace et superbo et iniurioso, quae vitia numquam in uno homine et in una contumelia consumuntur.

XIX. (1)15 Respiciamus eorum exempla quorum laudamus patientiam, ut Socratis, qui comoediarum publicatos in se et spectatos sales in partem bonam accepit risitque non minus quam cum ab uxore Xanthippe immunda aqua perfunderetur. Antistheni mater barbara et Thraessa obiciebatur; respondit et deorum matrem Idaeam esse. (2) Non est in rixam colluctationemque veniendum. Procul auferendi pedes sunt, et quicquid horum ab imprudentibus fiet (fieri autem nisi ab imprudentibus non potest) neglegendum, et honores iniuriaeque vulgi in promiscuo habendae, nec his dolendum nec illis gaudendum. (3) Alioqui multa timore contumeliarum aut taedio necessaria omittemus publicisque et privatis officiis, aliquando etiam salutaribus, non occurremus, dum muliebris nos cura angit aliquid contra animum audiendi. Aliquando etiam, obirati potentibus, detegemus hunc affectum intemperanti libertate. Non est autem libertas nihil pati: fallimur; libertas est animum superponere iniuriis et eum facere se ex quo solo sibi gaudenda veniant, exteriora diducere a se, ne inquieta agenda sit vita omnium risus, omnium linguas timenti. Quis enim est qui non possit contumeliam facere; si quisquam potest? (4) Diverso autem remedio utetur sapiens affectatorque sapientiae. Imperfectis enim et adhuc ad publicum se iudicium dirigentibus hoc proponendum est, inter iniurias ipsos contumeliasque debere versari: omnia leviora accident exspectantibus. Quo quisque honestior genere, fama, patrimonio est, hoc se fortius gerat, memor in prima acie lectos ordines stare. Contumelias et verba probrosa et ignominias et cetera dehonestamenta velut clamorem hostium ferat et longinqua tela et saxa sine vulnere circa galeas crepitantia. Iniurias vero ut vulnera, alia armis, alia pectori infixa, non deiectus, ne motus quidem gradu, sustineat. Etiam si premeris et infesta vi urgeris, cedere tamen turpe est: assignatum a natura locum tuere. Quaeris quis hic sit locus? Viri. (5) Sapienti aliud auxilium est, huic contrarium: vos enim rem geritis, illi parta victoria est. Ne repugnate vestro bono, et hanc spem, dum ad verum pervenitis, alite in animis, libentesque meliora excipite et opinione ac voto iuvate: esse aliquid invictum, esse aliquem in quem nihil fortuna possit, e re publica est generis humani.

La fermezza del saggio

I. Si può giustamente affermare, o Sereno, che fra gli Stoici e quelli che come loro professano la saggezza c’è la stessa differenza che passa tra i maschi e le femmine, nel senso che entrambi i gruppi contribuiscono in uguale misura alla vita sociale, ma i maschi sono nati per comandare, le femmine per obbedire. Tutti gli altri saggi sono miti e indulgenti e si comportano perlopiù come quei medici di famiglia che curano le malattie non nel modo migliore e più rapido, ma come piace al malato; gli Stoici, invece, che seguono una condotta davvero degna dell’uomo, non si preoccupano che essa appaia gradevole agli iniziati, a coloro, cioè, che hanno scelto di mettersi su quella strada, ma pensano solo a liberarsi al più presto dalle pastoie della vita, sollevandosi ad una vetta così alta, al di là di qualunque gettata di dardo, da porsi al di sopra del loro stesso destino. Obietterai che quella indicata dagli Stoici è una strada ripida e piena di precipizi. E con ciò? Forse che in alto si arriva facilmente, tenendosi rasoterra? Ma poi questo cammino non è neppure così ripido e dirupato come generalmente si crede. Solo il primo tratto è cosparso di sassi e di rupi, e perciò sembra impraticabile, così come, a colpo d’occhio, se si guardano da lontano, tutti i sentieri di una montagna appaiono perlopiù tortuosi e collegati fra loro in una massa uniforme, inquantoché la distanza inganna la vista, ma poi, via via che ci si avvicina, quello che l’occhio umano aveva per errore mescolato in un tutto unico e confuso, a poco a poco si fa chiaro e distinto e quelli che da lontano sembravano precipizi diventano lievi e facili pendii.

II. Qualche tempo fa, essendo il nostro discorso caduto su Catone, ti mostrasti sdegnato – tu che non tolleri le ingiustizie – per il fatto che quel grand’uomo fu capito poco dai suoi contemporanei, i quali lo giudicavano addirittura al di sotto di Vatinio, lui che era al di sopra di Cesare e di Pompeo, e ti sembrava vergognoso che nel Foro, poiché era contrario all’approvazione di una legge, gli fosse stata strappata di dosso la toga e che, trascinato dai Rostri sino all’Arco di Fabio da una banda di facinorosi, avesse dovuto sopportare gl’insulti, gli sputi ed ogni altro genere di offese da parte della folla inferocita. Ebbene, allora io ti risposi che avevi ragione a sdegnarti per la sorte dello Stato – che Publio Clodio da un lato e Vatinio da un altro, insieme a tutti i peggiori, stavano vendendo all’asta, senza rendersi conto, accecati com’erano dalla loro avidità, che vendendo lo Stato vendevano anche se stessi – ma per ciò che riguardava Catone ti dissi di stare tranquillo, giacché nessun uomo saggio può subire alcuna ingiuria o contumelia, e Catone ci era stato dato dagli dèi immortali quale esempio di saggezza, ancora più sicuro di quello offerto da Ulisse e da Ercole alle nostre passate generazioni. Costoro furono definiti saggi dai nostri antichi Stoici perché invincibili nelle fatiche, sprezzanti dei piaceri e vincitori di tutte le paure, Catone, invece, non combatte contro le belve – un compito, questo, riservato ai cacciatori e ai contadini – né assalì mostri col ferro o col fuoco, né gli toccò di vivere in un tempo in cui ancora si poteva credere che il mondo poggiasse sulle spalle di un gigante, giacché ormai le vecchie superstizioni erano crollate e la gente s’era fatta estremamente scaltra. Lottando contro l’ambizione, mostro dai mille volti, e contro la smisurata brama di potere – tale che nemmeno il mondo intero, diviso fra tre sole persone, Cesare, Crasso e Pompeo, poteva saziare – lui solo si levò contro i vizi di una città corrotta che stava per crollare sotto il suo stesso peso, ritardando così la caduta della repubblica, per quanto poteva farlo con la sua sola mano, sino a quando, travolto anche lui, volle partecipare a quella rovina che aveva cercato a lungo di evitare, e così perirono insieme due cose che non era possibile separare: né Catone, infatti, sopravvisse alla libertà, né la libertà sopravvisse a Catone. Credi dunque che il volgo abbia recato offesa a quest’uomo quando gli tolse la pretura, gli strappò di dosso la toga o coprì il suo sacro capo di sputi? Il saggio è imperturbabile di fronte ad ogni male e non può essere raggiunto da alcuna ingiuria o contumelia.

III. A questo punto mi sembra di vederti fremere dentro e ribollire di sdegno. «Ecco», stai per sbottare, «sono questi i discorsi che tolgono credibilità ai vostri insegnamenti: promettete cose tanto grandi che non si possono né credere né desiderare, poi, dopo averne dette tante, dopo avere affermato che il saggio non può essere povero, siete costretti a riconoscere che spesso non ha uno schiavo, non ha un tetto, né cibo, addirittura; dopo avere proclamato che il saggio non può diventare pazzo, ammettete che può perdere il lume della ragione, dire parole insensate e comportarsi di conseguenza, non potendo sottrarsi agl’impulsi della sua malattia; così da un lato dite che il saggio non può essere schiavo, dall’altro confessate che può essere venduto o costretto ad eseguire degli ordini e a compiere lavori servili per un padrone, sicché in sostanza, con tutta la vostra boria, finite col dire le stesse cose che dicono gli altri: cambiate i nomi, ma il contenuto resta tale e quale. E mi viene il sospetto che il vostro ragionamento non funzioni nemmeno per quel che riguarda l’idea, bella e magnifica a prima vista, secondo cui il saggio non può ricevere né ingiurie né contumelie. Perché un conto è ritenere il saggio immune da ogni risentimento (in quanto questo dipende da lui), un conto è ritenerlo esente da ogni ingiuria (in quanto questa dipende dagli altri). Se infatti dici che sopporta ogni cosa con animo sereno non gli dai alcun privilegio sugli altri, gli conferisci solo una virtù abbastanza comune, che si acquista proprio con la frequenza delle ingiurie ricevute, la sopportazione; se invece mi dimostri che non riceverà mai alcuna offesa, nel senso che nessuno tenterà di fargliene, allora pianto baracca e burattini e mi faccio stoico.» Ascoltami bene. Io non mi sono mai sognato d’incensare il saggio con delle lodi sperticate, attribuendogli delle doti immaginarie, ho solo voluto collocarlo in un posto in cui non possa giungergli alcuna offesa. In che senso?, mi domandi. Nel senso che non ci sarà mai nessuno che lo provochi, che lo aggredisca? In questo mondo non c’è niente di tanto sacro che non possa essere soggetto agli attacchi di un empio, ma non per questo le cose divine sono meno sublimi, per il fatto, cioè, ch’esiste qualcuno desideroso di colpirle; senza però riuscire a toccarle, giacché si trovano ad una tale altezza che va ben oltre la portata delle nostre forze. In poche parole, è invulnerabile non chi non viene colpito, ma chi non si sente ferito: in questo è il privilegio del saggio, e te ne farò il ritratto partendo proprio da qui. C’è forse da dubitare se dia più affidamento una forza che non si lascia mai vincere o una che non viene mai attaccata? Nessuna certezza ci offrono quelle energie che non sono mai state messe alla prova, mentre è da considerarsi, e giustamente, saldissima quella fermezza che respinge tutti gli assalti. Allo stesso modo devi considerare più saggio chi non sente le ingiurie che non colui al quale non ne viene mai fatta alcuna. Così come è più forte chi non si lascia piegare dalle guerre o non si turba al sopraggiungere del nemico, che non chi vive in un piacevole ozio fra pacifiche popolazioni. È questo, dunque, ciò che intendo dire quando affermo che il saggio non è soggetto ad alcuna ingiuria. Perciò non importa quante e quali frecciate gli si lancino addosso: egli è impenetrabile a tutte. Come certe pietre per la loro durezza non vengono intaccate dal ferro, come l’acciaio non può essere tagliato o spezzato o consumato con l’uso, ma respinge gli attrezzi che lo aggrediscono, come certi corpi non sono distrutti dal fuoco ma anche avvolti dalle fiamme mantengono la loro forma e la loro consistenza, come certi scogli che, protesi verso il mare aperto, frangono le onde e, benché flagellati per tanti secoli, non mostrano alcuna traccia di quella violenza, così l’animo del saggio se ne sta saldo e sicuro e accoglie in sé una forza tale che lo pone al riparo da ogni ingiuria, come le cose che perlappunto ho citato.

IV. «In conclusione, nessuno tenterà di fare ingiuria al saggio: è questo che vuoi dire?». Dico che l’ingiuria può anche essergli fatta, ma non lo tocca: egli è talmente lontano da ogni contatto con le cose volgari che nessuna forza maligna può praticamente raggiungerlo ed esercitare su di lui i suoi effetti nocivi. Siano pure i potenti ad attaccarlo – quelli che stanno in alto e comandano, forti del servilismo dei sudditi – tutti i loro assalti sono destinati a fallire di fronte alla sua saggezza prima ancora di sfiorare il bersaglio, come dei proiettili scagliati in alto da un arco o da una catapulta, che salgono, salgono sino a perdita d’occhio ma a un certo punto ricadono giù senz’avere raggiunto il cielo. Credi forse che quando quel pazzo del re Serse oscurò il giorno scagliando in aria una gran moltitudine di frecce ce ne sia stata fra tante almeno una che abbia colpito il sole? O che quando calò delle catene nel profondo del mare abbia potuto acchiappare Nettuno? Come le cose divine sfuggono alla mano dell’uomo e quelli che distruggono templi e fondono statue degli dèi non nuocciono affatto alla divinità, così qualunque atto di malvagità, d’insolenza e di superbia compiuto contro il saggio è sforzo vano. Mi obietterai che sarebbe meglio se nessuno l’offendesse. D’accordo, ma tu pretendi dagli uomini una cosa difficile, l’incapacità di fare del male; e d’altronde questo problema, se astenersi o no dalle offese, riguarda solo coloro che sono in grado di poterle fare, ma non chi non può esserne toccato, chi non sente le ingiurie che gli vengono rivolte, ed è proprio in questo caso, se cioè le offese ci sono, che la saggezza mostra meglio la sua forza, restandosene tranquilla pur in mezzo agli assalti, così come un comandante, forte d’armi e di uomini, dà prova di un coraggio autentico, vero, in territorio nemico.

V. E adesso, Sereno, se sei d’accordo, vediamo che differenza passa fra l’ingiuria e la contumelia. La prima è per sua natura più grave, la seconda più leggera e risulta molesta solo alle persone permalose, non procura praticamente alcun danno, genera solo irritazione. Tuttavia la debolezza e la vanità dell’animo umano sono tali che alcuni considerano la contumelia come la cosa più terribile che vi sia, per cui può capitare che uno schiavo preferisca essere preso a frustate piuttosto che a pugni o ritenga la morte e le percosse più sopportabili delle parole offensive: siamo infatti arrivati all’assurdo che persino l’idea del dolore ci procura risentimento, come accade ai bambini, che si spaventano alla vista di un’ombra, di una maschera deforme o di un volto alterato, e che di fronte ad una parola dal suono poco gradevole, ad un movimento delle dita o a qualunque altro fatto che, per la loro inesperienza, istintivamente respingono, scoppiano subito a piangere. L’ingiuria mira a fare del male, ma questo non ha presa sul saggio: per lui l’unico male sarebbe l’infamia, ma anche questa non può entrare dove risiedono la virtù e l’onestà. Dunque, se non c’è ingiuria dove non c’è male, se non c’è male dove non c’è infamia, e l’infamia non può toccare chi è tutto preso dal bene, ne consegue che l’ingiuria non può raggiungere il saggio. Se essa infatti consiste nel patire qualcosa di male, e il saggio non può patire alcun male, è evidente che nessuna ingiuria potrà toccarlo. L’ingiuria reca danno a chi la riceve, il danno consiste in una qualche menomazione fisica o morale o nella perdita di beni esterni, ma il saggio non può perdere nulla in quanto ha tutto dentro di sé, non affida niente alla fortuna, ha i suoi beni al sicuro, pago della virtù, che non ha bisogno di cose fortuite e che perciò, essendo tutto per lui, non può né aumentare né diminuire: infatti ciò che ha raggiunto il massimo del suo sviluppo non può crescere ulteriormente, e d’altra parte la sorte può togliere solo quello che ha dato, ma non la virtù, che non è elargita da lei, in quanto è libera, inviolabile, immutabile, irremovibile, così fortificata di fronte alle disgrazie che non si lascia né piegare né vincere, osserva con occhio fermo, imperturbabile, senza battere ciglio, anche gli eventi più terribili che stanno per accadere e lo svolgersi di essi, siano pure i più spaventosi, le portino sventure o felicità. Il saggio, quindi, non può perdere nulla di cui possa poi sentire la mancanza: il suo unico e vero bene, infatti, è la virtù, di cui, come ho già detto, non potrà mai essere privato; di tutto il resto si serve come di cosa precaria, accordatagli da altri a titolo di favore e perciò revocabile a discrezione di chi gliel’ha data, e chi mai si scompone per la perdita di un bene non suo? Ergo, se l’ingiuria non può danneggiarlo in niente di ciò che è esclusivamente suo – e se è salva la sua virtù sono salvi tutti i suoi beni – ne consegue che il saggio non può ricevere ingiuria. Il filosofo Stilpone, interrogato da Demetrio Poliorcete – che aveva conquistato Megara, la sua città – se mai avesse perso qualcosa: «Nulla», rispose, «tutti i miei beni sono con me». Eppure il nemico gli aveva depredato l’intero patrimonio, portato via le figlie, la sua patria era caduta sotto il dominio straniero, ed ora il re vincitore, attorniato da tutto il suo esercito in armi, lo interrogava dall’alto del suo seggio. Ma lui gli tolse la soddisfazione di averlo vinto, gridandogli chiaro in faccia che nonostante la presa della città egli non solo rimaneva invitto ma ne usciva immune da qualsiasi danno, giacché aveva con sé i beni veri, autentici, su cui nessuno può mettere le mani: gli altri, che gli venivano saccheggiati e portati via, non li considerava suoi ma stranieri e soggetti al capriccio della sorte, per cui non li aveva mai amati come propri. Incerto, infatti, e sfuggevole è il possesso di tutto ciò che ci viene dal di fuori.

VI. Se dunque né la guerra, né i nemici, né quel maestro famoso nell’arte egregia di distruggere le città poterono togliere nulla a quel grande saggio, pensa un po’ se potevano fargli ingiuria un ladro, un calunniatore, un vicino di casa arrogante od un riccone gonfio di autorità soltanto perché vecchio e senza figli. Fra le spade che balenavano da ogni parte e il tumulto dei soldati intenti al saccheggio, tra le fiamme, il sangue e le stragi di una città in rovina, tra il fragore dei templi che crollavano sui loro dèi, un solo uomo era in pace. Non hai motivo, quindi, di considerare avventata la mia promessa, a sostegno della quale non ti do solo la mia parola ma ti offro anche un garante, visto che ancora stenti a credere che in un uomo possano esserci tanta fermezza e tanta magnanimità. Ecco che lo stesso Stilpone ti si fa avanti e ti dice: «Non hai ragione di dubitare che un uomo possa innalzarsi al di sopra delle vicende umane e guardare imperterrito i dolori, le sventure, le piaghe, le ferite, i grandi cambiamenti che gli si agitano intorno; che possa accettare tranquillamente le avversità e con moderazione la buona sorte, non lasciandosi vincere da quelle né confidando troppo in questa, mantenendo insomma il medesimo atteggiamento pur nel variare delle situazioni e ritenendosi proprietario di niente altro che di se stesso. Ecco, guarda: mentre ad opera di questo distruttore di città ogni difesa materiale crolla sotto i colpi dell’ariete, le alte torri all’improvviso sprofondano nei cunicoli e nei fossi sotterranei ed i bastioni innalzati per l’assedio raggiungono le difese più alte, non c’è macchina che possa atterrire un animo così saldo. Sono appena scampato alla rovina della mia casa e con gl’incendi che divampano da ogni parte ho evitato le fiamme attraversando laghi di sangue; ignoro la sorte delle mie figlie, forse peggiore di quella toccata alla città; vecchio e solo, attorno a me non vedo che nemici, e tuttavia dichiaro apertamente che il mio patrimonio non ha subìto alcun danno: tutto quello che avevo m’è rimasto. Non puoi perciò considerarmi vinto, né, per quel che mi riguarda, ritenere vincitore quel re: non è lui, infatti, semmai, che mi ha sconfitto, è la sua sorte, di cui egli non è che uno strumento, che ha avuto ragione della mia. Non so dove siano quei beni caduchi, destinati a mutare padrone, ma i miei, quelli autentici, veri, sono con me, né mai potranno lasciarmi. I ricchi perdono interi patrimoni, i libertini gli amori lascivi, di cui si compiacciono con grave danno per la propria reputazione, gli ambiziosi il Foro, il Senato e gli altri posti riservati al pubblico esercizio delle umane debolezze, gli usurai perdono i registri, su cui la loro avarizia, che va beandosi a torto, sogna ricchezze a non finire; io, invece, conservo intatta ed integra ogni cosa. Interroga questi vinti che piangono, che si lamentano di aver perduto qualcosa, che per salvare il denaro oppongono alle spade sguainate il corpo nudo, che fuggono davanti al nemico col grembo pieno di roba». Convinciti dunque, o Sereno, che chi è perfetto, ricco, cioè, di virtù umane e divine, non può perdere nulla. I suoi beni sono protetti da difese solide e inespugnabili. Niente sono al confronto di queste le mura di Babilonia, nelle quali Alessandro riuscì a penetrare, né quelle di Cartagine e di Numanzia, espugnate da un solo braccio, né la rocca del Campidoglio, che porta ancora i segni dell’assalto nemico. Le mura che difendono il saggio sono a prova d’incendi e d’incursioni, né offrono il minimo accesso; inattaccabili, eccelse, s’alzano sino agli dèi.

VII. Ed ora, come al solito, non dirmi che questo saggio non lo si trova da nessuna parte. Noi Stoici non c’inventiamo una gloria impossibile per l’uomo, non concepiamo l’immagine sublime di qualcosa che non esiste: questo saggio, quale noi lo rappresentiamo, si è già realizzato e si realizzerà ancora, raramente, forse, magari ne verrà fuori uno ogni tanto, a lunghi intervalli di tempo, perché gli uomini eccezionali, che superano il livello comune, non nascono spesso, ma verrà; e d’altra parte penso che Marco Catone stesso, dal cui ricordo ha preso inizio questa nostra discussione, sia andato addirittura al di là del modello che noi Stoici proponiamo. Considera infine che ciò che ferisce deve necessariamente essere più forte di ciò che viene ferito, e poiché la malvagità non è più forte della virtù ne consegue che il saggio non può esserne ferito. È ovvio, infatti, che solo i cattivi possono tentare di nuocere ai buoni, giacché questi sono in pace, fra loro, e se può sentirsi ferito soltanto chi è più debole del feritore – e il malvagio è più debole del buono – è evidente che il saggio non può essere toccato dall’ingiuria. Quando dico saggio mi riferisco naturalmente ad un uomo buono, giacché la bontà – non c’è bisogno ch’io te lo ricordi – è propria della saggezza. Mi obietterai: «Ma se Socrate, ch’era un uomo buono, ha scontato, e ingiustamente, una condanna, vuol dire che l’ingiuria l’ha subita». Non è così: il fatto che uno mi lanci un insulto non comporta necessariamente che io lo riceva. È come se un ladro rubasse un oggetto della mia villa di campagna e andasse a riporlo nella mia casa di città: il furto è stato commesso, ma io non ho perduto niente. Quanto al ladro, egli rimane sempre un malfattore, anche se, praticamente, non ha recato alcun male. Se un marito, mentre fa l’amore con la sua donna, pensa ad un’altra, si comporta da adultero, ma sua moglie non può certo dirsi infedele. Mettiamo che uno mi somministri del veleno mescolandolo nel cibo e che per questa ragione quello non faccia alcun effetto: bene, quel tizio, nel darmi il veleno, ha commesso un crimine, anche se all’atto pratico non m’ha ammazzato. Un delinquente non è meno assassino per il fatto che io ho impedito alla sua arma di uccidermi facendomi scudo con la veste. Tutti i delitti sussistono anche prima della loro esecuzione materiale, quando, naturalmente, vi sia un motivo sufficiente di colpa. Alcune cose, poi, sono di tale natura e collegate fra loro in modo che una può stare senza l’altra ma non viceversa. Cercherò di chiarirti il mio concetto. Io posso muovere i piedi senza per questo camminare, ma non posso camminare senza muovere i piedi. Così se sto in acqua posso non nuotare, ma se nuoto devo per forza essere in acqua. Lo stesso vale per ciò di cui stiamo parlando: se ho ricevuto un’ingiuria è segno ch’è stata commessa, ma, se mi è stata indirizzata, non necessariamente io devo averla raccolta. Per non dire che possono intervenire molti fattori esterni ad impedire che l’ingiuria mi arrivi: come un fatto accidentale può bloccare la mano che tenta di colpirmi, o deviare una freccia già scagliata, così un evento qualsiasi può respingere o intercettare a metà strada l’offesa, di qualunque genere sia, con la conseguenza che essa risulta commessa ma non ricevuta.

VIII. D’altra parte la giustizia non può subire alcuna ingiustizia per la semplice ragione che i contrari non sono compatibili fra loro, non possono fondersi insieme, tanto è vero che l’ingiuria non può essere fatta se non ingiustamente: ergo, il saggio, che è un uomo giusto, è immune da ogni ingiuria. E se ti meravigli che nessuno possa nuocergli, pensa che, per la stessa ragione, non c’è alcuno che possa giovargli. A lui, infatti, non manca nulla, nulla, intendo, che possa essergli dato come un dono, o come un favore, e il malvagio cosa può offrire che sia degno del saggio? Innanzitutto dovrebbe avere qualcosa di utile da poter dare, e poi, quand’anche ce l’avesse e glielo desse, il saggio non potrebbe mai rallegrarsene. Insomma, come gli esseri divini non hanno bisogno di aiuto e non possono essere offesi, così nessuno può nuocere o giovare al saggio, il quale è molto vicino agli dèi, simile appunto ad un dio, se si eccettua la sua condizione mortale. Nel tendere con tutte le sue forze a quelle sfere sublimi, ordinate, imperturbabili, dal moto regolare ed armonico, serene, amorevoli, create per il bene di tutti, salutari per se stesse e per gli altri, il saggio non potrà mai concepire niente di meschino né rimpiangere alcunché. Chi, sorretto dalla ragione, passa tra le vicende umane con l’animo di un dio non può ricevere offese, e non dico soltanto da parte dell’uomo: non ne riceverà nemmeno dalla sorte, la quale, ogni volta che ha ingaggiato battaglia con la virtù, non ne è mai uscita vittoriosa. Se noi accettiamo con animo calmo e sereno quello che è il peggiore di tutti i guai, al di là del quale nulla possono più minacciarci delle leggi ingiuste e crudeli né i tiranni più spietati e contro cui diventa vano tutto il potere della fortuna, se siamo convinti che la morte, la morte, dico, non è un male e perciò neppure un’ingiuria, a maggior ragione potremo sopportare le altre avversità, le disgrazie, i dolori, le infamie, gli esilii, le perdite dei nostri cari, le separazioni, mali, questi, che quand’anche assalissero il saggio e lo stringessero in cerchio tutti insieme non riuscirebbero a sommergerlo, e tanto meno lo potrebbero singolarmente. E se egli sopporta con animo equilibrato le offese della fortuna, quanto più facilmente sopporterà quelle degli uomini potenti, i quali sono per lui nient’altro che strumenti della fortuna stessa.

IX. Il saggio accetta tutto, come accetta i rigori del- l’inverno, le intemperie, le febbri, le malattie e qualunque altro accidente che possa capitargli, né giudica gli altri così ottimisticamente da crederli capaci di agire con giudizio, poiché questo è solo del saggio. Quelle di tutti gli altri non sono azioni assennate, sono inganni, insidie, sregolati moti dell’animo, che il saggio pone nel numero degli eventi fortuiti. Come l’ingiuria, appunto. Siamo accerchiati da una folla di cose occasionali, che infuriano da tutte le parti. Pensa quanti tipi e possibilità di offese possono venirci dagli altri, tali da mettere addirittura in pericolo la nostra vita, come prezzolare un delatore perché ci muova una falsa accusa, o scatenare contro di noi l’odio dei potenti, e tutte quelle altre ribalderie che sono in uso fra la cosiddetta gente civile. È ingiuria anche il privare uno di un giusto guadagno o di un successo a lungo sognato, soffiargli un’eredità ricercata con grande fatica o togliergli il favore di una famiglia ricca. Ma il saggio è esente da tutto ciò, inquantoché nella vita non ha né speranze né timori. Infatti, mentre chi riceve un’ingiuria l’avverte e si turba, il saggio, che è riuscito a sottrarsi alle lusinghe e agl’inganni della vita, che sa controllarsi e mantenersi in uno stato di placida e profonda serenità, è immune da ogni turbamento. Inoltre chi è ferito da un’ingiuria non solo ne resta scosso ma si arrabbia, cosa che non avviene al saggio, il quale non potrebbe essere immune dall’ira – che molte volte nasce alla sola idea di poter ricevere un’offesa – se non lo fosse anche dall’ingiuria, e ciò perché è consapevole che essa non può toccarlo. Per questo il suo animo è così elevato e sereno, per questo è sorretto da una letizia che non lo abbandona mai. Sino a tal punto egli non cede di fronte ai colpi degli eventi e degli uomini che l’ingiuria stessa finisce per essergli utile, nel senso che gli consente di mettere alla prova se stesso e di sperimentare la sua virtù. Assecondiamo, vi prego, tale proposito, e prestiamo benevola attenzione all’uomo saggio, che riesce a sottrarsi all’ingiuria! Non per questo sarà tolto qualcosa alla vostra sfacciataggine, alle vostre brame insaziabili, alla cieca sconsideratezza ed alla vostra superbia: noi Stoici rivendichiamo per il saggio questa libertà senza toccare i vostri vizi. Il nostro intento non è quello d’impedire le offese, noi chiediamo soltanto che il saggio possa lasciarle passare tutte senza vendicarsene, che se ne difenda con la tolleranza e la magnanimità. È così che nelle gare sacre molti ottengono la vittoria, stancando con una lunga e meditata pazienza le energie dell’avversario, e il saggio è della stessa tempra di coloro che con assiduo e coscienzioso esercizio hanno conseguito una forza tale da sostenere e fiaccare ogni violenza nemica.

X. Esaurita la prima parte del nostro discorso, relativa all’ingiuria, passiamo ora alla seconda, nella quale, con argomentazioni specifiche e generali insieme, dimostreremo l’inconsistenza della contumelia nei confronti del saggio. Cominciamo col dire che essa è meno grave dell’ingiuria e che, più che vendicarci di lei, possiamo lamentarcene, se, com’è vero, le leggi non la ritengono passibile di alcuna sanzione. È proprio di un animo mediocre risentirsi e chiudersi in se stesso per una frase o per un’azione sgarbata. «Quel tizio oggi non mi ha ricevuto, ma altre persone le riceveva». Oppure: «Mentre gli parlavo ostentava un superbo disprezzo o mi rideva in faccia pubblicamente». E ancora: «Invece di darmi un posto di riguardo, mi ha assegnato il peggiore». Come chiamare queste ed altre simili frasi se non lamentele, proprie di un animo permaloso? Generalmente sono gli schizzinosi e quelli che vivono nell’agiatezza a imbattersi in situazioni del genere, che non capitano invece a chi ha cose ben più importanti a cui pensare. Quando non hanno niente da fare, le persone deboli per natura o effeminate e suscettibili, perché non hanno mai conosciuto le offese vere, si risentono e si turbano di fronte a simili bazzecole, che il più delle volte sono frutto di un’errata interpretazione. Perciò chi si sente colpito da una contumelia mostra di non avere né giudizio né consapevolezza di sé, dal momento che si ritiene suscettibile di disprezzo: la sua amarezza è lo specchio di un animo mediocre, che tende ad abbassarsi, ad umiliarsi. Il saggio, invece, non si sente mai disprezzato, perché è consapevole della propria grandezza e non gli viene neppure in mente che qualcuno possa osare tanto contro di lui, perciò queste molestie dell’animo – non le chiamerei infatti sofferenze – non è che riesce a superarle, non le avverte proprio. Ben altre sono le cose che possono colpire il saggio, senza però abbatterlo, come il dolore fisico, l’invalidità, la perdita dei figli e degli amici, la rovina della patria incendiata dalla guerra: questi mali io non nego che il saggio li avverta – non vogliamo infatti attribuirgli la durezza e l’insensibilità del ferro o della pietra, né c’è virtù nel sopportare una cosa che non si sente. Allora? Allora li avverte, sì, ma nel medesimo istante li domina, ne guarisce, ne cancella le tracce. Le piccolezze, invece, non le sente nemmeno, né scomoda contro di esse la sua consueta virtù, avvezza a sostenere prove ben più dure: non le tiene insomma in alcun conto, o le considera degne di riso.

XI. Inoltre, visto che generalmente le contumelie le fanno i presuntuosi, gl’insolenti e gli eterni insoddisfatti, per respingere questo contegno arrogante il saggio possiede la più bella delle virtù, la magnanimità, la quale passa sopra le offese come se fossero delle vane immagini di sogno, fantasmi notturni privi di consistenza e di verità. Al tempo stesso egli ritiene che gli altri stiano troppo in basso per poter disprezzare degli esseri di gran lunga superiori a loro. La parola contumelia deriva da contemptus, che significa «disprezzo», e infatti non si reca una tale offesa se non a chi si disprezza, e un uomo non disprezza chi è più grande o migliore di lui, anche se a volte usa nei suoi confronti un atteggiamento che è tipico di chi disprezza. I bambini, per esempio, picchiano sul volto i genitori, i più piccoli spettinano la madre o le strappano i capelli, le sputano addosso o si scoprono davanti ai familiari quelle parti del corpo che dovrebbero restare coperte e non risparmiano parole oscene, eppure nessuno di questi atti li consideriamo un’offesa. E sai perché? Perché chi li compie non è capace di provare disprezzo. E come sorridiamo di fronte a tali gesti, così ci dilettiamo dell’arguzia dei nostri schiavi, un’arguzia che spesso, in realtà, diventa offensiva nei confronti dei padroni, anzi molti di loro sono così insolenti che dopo avere attaccato impunemente il padrone si sentono in diritto di punzecchiare anche gli ospiti e quanto più sono essi stessi disprezzati e derisi, tanto più hanno la lingua sciolta e si permettono certe libertà. C’è persino chi compra a tale scopo degli schiavetti procaci e li affida alle cure di un maestro che ne stimoli e ne perfezioni l’impertinenza in modo che sappiano lanciare insolenze ben studiate, e queste, tuttavia, noi non le chiamiamo contumelie, ma facezie. Che strana pazzia è la nostra: le medesime cose ora ci offendono, ora ci divertono, la stessa frase se è detta da un amico la chiamiamo maldicenza, se la dice invece uno schiavo è una battuta di spirito.

XII. Ora, il saggio mostra verso tutti i suoi simili l’atteggiamento che noi abbiamo nei confronti dei bambini, perché l’uomo, anche quando non è più giovane ed ha i capelli bianchi, resta sempre un po’ infantile: non si può dire infatti che abbia compiuto dei progressi se il suo animo è malato e i suoi errori, i suoi pregiudizi, invece di diminuire, sono andati crescendo. Gli adulti non differiscono dai fanciulli se non per la grandezza e l’aspetto fisico, ma in tutto il resto non sono meno volubili ed incerti di loro, avidi di piaceri, di cui poi non sanno nemmeno godere, sempre pieni di trepidazione, e se se ne stanno buoni buoni è solo per paura, non per disposizione naturale. Non c’è dunque tanta differenza fra gli adulti e i bambini, perché questi sono attaccati ai dadi, alle noci, alle monetine, e quelli all’oro, all’argento, alle città, e se i bambini giocano a fare i magistrati e simulano la pretesta, i fasci e il tribunale, gli adulti fanno lo stesso, anche se sul serio, in Campo Marzio, nel Foro e nel Senato; gli uni, sulla spiaggia, costruiscono casette di sabbia, gli altri, convinti di fare chissà che cosa, tirano su pietre, muri e tetti, che poi, magari, invece di proteggerli finiscono per rovinargli addosso. Gli adulti, dunque, si comportano come i bambini, con la differenza che i loro errori sono diversi e più gravi. Per questo il saggio prende come scherzi le loro offese, e se a volte li ammonisce, li rimprovera, o magari li punisce, lo fa con l’atteggiamento che hanno gli adulti verso i bambini e non perché abbia raccolto l’ingiuria ma perché loro l’hanno fatta e devono smettere di farne. È così che domiamo anche le bestie, le bastoniamo, se non si lasciano cavalcare, ma senza adirarci con loro: le percuotiamo affinché il dolore delle bastonate vinca il loro rifiuto. Eccoti dunque servito anche per l’obiezione che ci viene mossa, cioè per quale motivo, se non riceve né ingiurie né contumelie, il saggio punisce quelli che le fanno. Li punisce, ripeto, non per vendicarsi contro di loro, ma per correggerli.

XIII. D’altra parte perché non dovresti credere che al saggio si convenga questa fermezza d’animo, quando tu stesso la riscontri in altri, anche se dettata da un motivo diverso? Nessun medico si arrabbia con un pazzo, né si offende se un ammalato febbricitante lo insulta perché gli ha proibito l’acqua fredda. Ebbene, il saggio mostra verso tutti lo stesso atteggiamento che il medico ha nei confronti dei suoi pazienti, dei quali non disdegna di toccare le parti intime, se hanno bisogno di cure, di esaminare gli escrementi o altri rifiuti, né di subire gl’insulti quando li prende il delirio. Il saggio sa che tutti quelli che offendono, siano essi togati o porporati, benché all’aspetto sembrino sani, in realtà sono simili a dei malati che non sanno controllarsi, per cui, come il medico non se la prende se uno, sotto l’effetto della malattia, osa dirgli qualche frase sgradevole, così egli rimane indifferente di fronte alle loro villanie, allo stesso modo in cui non tiene in alcun conto gli elogi che essi gli fanno. Analogamente non si compiace se un mendicante lo riverisce, né si ritiene offeso se un plebeo non gli restituisce il saluto, e neppure monta in superbia se molti ricchi lo guardano con ammirazione, in quanto sa che costoro non differiscono affatto dai mendicanti, anzi sono più miserabili, perché a chi vive di elemosina basta poco, loro, invece, hanno bisogno di molto. Così pure non si offende se il re dei Medi, per dire, oppure Attalo d’Asia, non risponde al suo saluto e tira dritto in silenzio e con fare arrogante: egli sa che la loro condizione non è più invidiabile di quella di chi in una grande famiglia ha il compito di sorvegliare gl’infermi e i malati di mente. Credi che io me l’abbia a male se non ricambiano il mio saluto i trafficanti che bazzicano nel tempio di Castore o i commercianti che comprano e vendono schiavi di poco conto, le cui botteghe sono zeppe di servi della peggiore specie? Direi proprio di no. Cosa può avere infatti di buono uno che sotto di sé ha solo dei cattivi? Perciò il saggio, come si mostra indifferente di fronte alla cortesia o alla scortesia di simili persone, così fa anche con un re, al quale dice: «Hai sotto di te i Parti, i Medi e i Battriani, ma li domini con la paura e perciò non ti è consentito di allentare l’arco; e quelli sono pessimi, venali, sempre in cerca di un nuovo padrone». Il saggio, in conclusione, non si lascerà mai turbare dalle offese di chicchessia, giacché, sebbene diversi fra loro, gli uomini per lui sono tutti uguali, in quanto tutti parimenti stolti. Se infatti dovesse cedere anche una sola volta e turbarsi di fronte ad un’ingiuria o ad una contumelia, non potrebbe mai essere sicuro di sé, e la sicurezza, invece, è un bene proprio del saggio. E non commetterà mai l’errore di riconoscere apertamente di aver ricevuto un’offesa, per non dare importanza a colui che gliel’ha fatta: chi si duole di essere disprezzato dimostra infatti che sarebbe lieto di essere apprezzato, e ciò non è del saggio.

XIV. C’è poi chi arriva a tal punto di stupidità da ritenersi offeso se una donna gli rivolge delle parole sgradevoli. Ebbene, può essere pure di alto rango, avere un gran numero di lettighieri, portare appesa agli orecchi tutta la sua oreficeria e stare seduta sopra un trono, la donna è un essere irriflessivo e, a meno che non abbia un’istruzione e una buona dose di cultura, selvatico e incapace di controllare le proprie passioni. Che offesa dunque può recare? Altri ancora si risentono se per caso vengono urtati dal barbiere e considerano contumelie il modo di fare poco urbano di un portinaio, la boria di un maestro di casa o di un semplice cameriere. Oh quanto invece ride di queste sciocchezze, quanto gioisce nell’animo colui che nel trambusto degli errori umani si mantiene sereno! «Ma allora», mi dirai, «il saggio non si accosterà mai ad una porta sorvegliata da un custode sgarbato?». Se ha un serio motivo per farlo, sì, e cercherà di ammansire quell’uomo, chiunque egli sia, come si fa con un cane rabbioso gettandogli del cibo, né disdegnerà di dargli qualche moneta per poter varcare la soglia, considerando che anche per attraversare certi ponti bisogna pagare il pedaggio. Così darà pure la mancia a quel maestro di casa che si fa pagare una tassa per le visite al suo padrone: il saggio non si vergogna di comprare ciò che è in vendita. È un pusillanime chi si compiace di aver risposto per le rime ad un custode scortese, di avergli spezzato la bacchetta e di essere andato egualmente dal suo padrone, chiedendogli di frustarlo. Chi litiga si mette sullo stesso piano dell’avversario, e vi resta anche se vince. «E se si piglia un ceffone, il saggio che cosa fa?». Quello che fece Catone quando fu schiaffeggiato: non andò in escandescenze, non si vendicò dell’ingiuria, e nemmeno la perdonò; negò semplicemente che gli fosse stata fatta. Ignorandola mostrò maggiore magnanimità che se l’avesse perdonata. Non c’è bisogno che ci soffermiamo a lungo su questo argomento: è noto, infatti, che il saggio la pensa in modo completamente diverso da quello degli altri su quel che è bene e su quel che è male. Non s’interessa di ciò che gli uomini considerano turpe o meschino, ma, come le stelle ruotano in senso contrario al moto del cielo, così egli procede nella direzione opposta a quella degli altri.

XV. Smettetela dunque di chiedere: «Ma allora il saggio non riceverà ingiuria se verrà bastonato o se, mettiamo, gli si caverà un occhio? E se nel Foro sarà bersagliato dalle grida insolenti di persone spudorate, se al banchetto di un re sarà confinato all’ultimo posto e costretto a mangiare fra gli schiavi adibiti ai servizi più umili, o se dovrà subire qualunque altro di quegli atti molesti che si possono inventare contro un’anima candida e virtuosa, non riterrà che gli sia stata fatta una contumelia?». Simili affronti, per quanto possano essere gravi e numerosi, sono tutti della stessa natura: essi non toccano il saggio, siano leggeri o pesanti, siano pochi o parecchi. Voi vi costruite un’idea della magnanimità sulla base della vostra debolezza e una volta che avete giudicato fin dove può arrivare la vostra capacità di sopportazione attribuite a quella del saggio un limite di poco più alto. Ma egli è stato posto dalla sua virtù in ben altri confini del mondo e non ha più niente in comune con voi. Mettetelo pure di fronte alle situazioni più difficili e intollerabili, quelle che non si vogliono nemmeno vedere o sentir nominare, egli non si lascerà abbattere da loro, che lo assalgano tutte insieme o singolarmente. Sbaglia chi pensa che il saggio alcune cose le sopporti ed altre no, che la sua magnanimità giunga sino a determinati limiti: non si vince la sorte se non si riesce a vincerla in tutto. E non dirmi che questo è rigore stoico, perché Epicuro, che voi avete assunto ingiustamente a patrono della vostra inerzia, convinti che v’insegni le mollezze, la pigrizia e tutto ciò che conduce al piacere, ha detto: «Raramente la sorte s’intromette nella vita del saggio». Che grande massima è questa, quasi da vero uomo! Basta spingersi un po’ più avanti e cancellarla del tutto, la sorte. Guarda la casa del saggio, piccola, senza ricercatezze, senza rumori, senza pompa, non custodita da portinai che regolano l’entrata della gente con venale arroganza, e tuttavia da quella soglia aperta e priva di custodi la sorte non passa: sa che per lei non c’è posto dove non c’è nulla di suo.

XVI. Ora, se anche Epicuro, che pur fa molte concessioni al corpo, assume di fronte all’ingiuria un atteggiamento di superiorità, cosa può esserci per noi Stoici di incredibile o che sembri andare al di là della natura umana? Egli afferma che le ingiurie sono tollerabili per il saggio, noi che non esistono affatto, per lui. E non dirmi che ciò è contrario alla natura: noi infatti non neghiamo che sia spiacevole essere bastonati, malmenati e persino privati di qualche parte del corpo, diciamo solo che queste non sono ingiurie; non sosteniamo che non fanno male, semplicemente non le chiamiamo ingiurie, perché l’ingiuria non è compatibile con la virtù. Vediamo quale delle due dottrine è più vicina al vero, premesso che Stoici ed Epicurei sono entrambi concordi nel detestare l’ingiuria. Se vuoi saperlo, fra loro c’è la stessa differenza che passa fra due gladiatori molto forti, l’uno dei quali si comprime la ferita restando fermo al suo posto, l’altro, rivolto alla folla urlante, fa segno che la sua è cosa da nulla e non accetta che s’intervenga. Non credere che fra noi il dissenso sia grande: entrambe le scuole concordano su questo punto, l’unico che ci riguardi, che cioè non si devono tenere in alcun conto le ingiurie, comprese quelle che si potrebbero chiamare ombre o sospetti di ingiurie, vale a dire le contumelie, per respingere le quali non c’è bisogno di essere saggi, basta avere un po’ di buon senso e dire a se stessi: «Questi affronti che mi vengono fatti li merito o non li merito? Se li merito non sono un’offesa, sono un atto di giustizia, se non li merito non sono io che devo vergognarmi ma chi ha commesso questa ingiustizia». Ma poi, in definitiva, che cos’è la contumelia? Quando uno scherza sul mio cranio pelato, sulla mia vista corta, sulle mie gambe magre come due stecchini o sulla mia bassa statura, dove sta l’offesa? È una contumelia rimarcare ad uno un suo difetto evidente? Se uno ce lo dice a tu per tu ci ridiamo sopra, se di fronte a molti ci arrabbiamo, e neghiamo agli altri la libertà di ripeterci quelle cose che noi stessi siamo soliti dire sul nostro conto. Gli scherzi, se sono moderati ci divertono, se passano la misura ci fanno andare in bestia.

XVII. Crisippo narra di un tale che montò su tutte le furie perché uno lo aveva chiamato «montone marino». In Senato abbiamo visto piangere Fido Cornelio, genero di Ovidio Nasone, quando Corbulone lo chiamò «struzzo spennacchiato». Lui, ch’era rimasto imperterrito di fronte a ben altri insulti, che ferivano i suoi costumi e la sua vita stessa, scoppiò in lacrime per una cosa tanto assurda. Com’è debole l’animo umano quando viene a mancare la ragione! Ci offendiamo persino se uno imita il nostro modo di parlare o di camminare, se rifà un nostro difetto fisico o di pronuncia. Come se questi difetti fossero più evidenti quando vengono imitati da altri che non quando li mostriamo noi stessi. C’è poi chi non vuole sentir parlare di vecchiaia, di capelli bianchi o di altre cose proprie di quell’età a cui tutti si augurano di arrivare. Ad alcuni scotta sentirsi rinfacciare la propria povertà, quando è evidente che se uno cerca di nasconderla vuol dire che se ne fa un rimprovero. L’unico modo per togliere agl’insolenti e agli spiritosi la possibilità di offenderci è di prenderli in contropiede, canzonandoci da noi: chi ride per primo di se stesso non viene preso in giro da nessuno. Vatinio, che sembrava nato per essere deriso e detestato, era – a quanto si racconta – un motteggiatore spiritoso e mordace: ne diceva tante anche su se stesso, sui suoi piedi e sulle cicatrici che aveva alla gola, che con questo sistema riusciva ad evitare le stilettate dei suoi nemici, che erano ancora più numerosi dei suoi difetti, e specialmente quelle di Cicerone. Se con la sua sfrontatezza quest’uomo – che a furia d’insultare aveva smesso di arrossire – è potuto giungere a tanto, perché non può arrivarvi chi con gli studi liberali e la pratica della saggezza ha già ottenuto qualche risultato? Aggiungi poi che non dare soddisfazione a chi ti ha insultato, riconoscendo l’offesa fatta, è già un modo di vendicarsi. In questo caso chi offende è solito dire: «Che sfortuna! Credo che non abbia capito». Ciò perché lo scopo della contumelia è proprio quello di attirare l’attenzione e suscitare lo sdegno di chi la riceve. Comunque sta’ tranquillo, un giorno o l’altro qualcuno gli renderà la pariglia, ai tuoi denigratori, vendicando anche te.

XVIII. Caligola – che possedeva vizi in abbondanza – era pure insolente: provava un piacere matto nell’insultare la gente, proprio lui che col suo aspetto fisico offriva non poche occasioni di riso. Era infatti di un pallore così turpe che bastava solo quello a dimostrare ch’era pazzo, aveva occhi torvi nascosti sotto una fronte da vecchia, una testa deforme, pelata, con dei capelli sparsi qua e là che sembrava glieli avessero dati in elemosina. Aggiungi una nuca folta di peli, gambe magrissime e dei piedoni enormi. Ebbene, se io volessi riferire ad una ad una tutte le contumelie da lui rivolte ai genitori, ai nonni e ad ogni categoria di cittadini, non la finirei mai: ricorderò soltanto quelle che lo portarono alla morte. Tra i suoi amici più importanti c’era Valerio Asiatico, uomo violento e intollerante delle offese altrui. Caligola, durante un banchetto, che è come dire in una pubblica assemblea, parlando ad alta voce, sì che tutti potessero udirlo, gli rinfacciò il modo in cui sua moglie faceva l’amore. Per gli dèi, cosa doveva sentire un marito! L’imperatore che arriva a tal punto di sfacciataggine da raccontare, non dico ad un ex console o ad un amico, qual era per Caligola Valerio Asiatico, ma ad un marito il suo rapporto amoroso con la moglie di lui, nonché il disgusto che ne ha provato! Cherea, invece, tribuno militare, parlava in un modo che non rispecchiava il suo valore: aveva infatti, nella voce, un’inflessione languida, che per chi non conoscesse le sue imprese guerresche poteva anche insospettire. Ebbene, quando andava a chiedere la parola d’ordine, Caligola gli dava a volte «Venere», a volte «Priapo», intendendo così rinfacciare a quell’uomo d’armi la sua effeminatezza, proprio lui che indossava vesti trasparenti, calzava i sandali e si copriva di monili d’oro. Per questo Cherea lo ammazzò, per non dover più chiedere parole d’ordine. Egli fu il primo fra i congiurati a levare il braccio contro Caligola, fu lui che gli staccò la testa, di netto. Dopo gli furono inferti da ogni parte numerosi colpi di spada, a vendetta d’ingiurie pubbliche e private, ma il primo a comportarsi da uomo in quell’occasione fu Cherea, lui che uomo non sembrava. Caligola vedeva insulti ad ogni angolo, contro di sé, ed è naturale che i primi a voler offendere siano proprio quelli che non riescono a sopportare le offese. S’infuriò, per esempio, con Erennio Macro perché lo aveva salutato col nome di Gaio, e non la passò liscia neppure un centurione che lo aveva chiamato Caligola, quando questo appellativo era il più caro ai soldati, che solitamente lo chiamavano così inquantoché era nato in un accampamento ed era cresciuto fra i legionari. Ma lui, che ormai indossava i coturni, e non più le caligae, giudicava ingiurioso ed offensivo quel nome. Perciò, anche se la nostra indulgenza ci farà rinunciare alla vendetta, potrà esserci di conforto pensare che alla fine ci sarà qualcuno che, in un modo o nell’altro, punirà la sfacciataggine, l’arroganza e l’insolenza di chi ci offende, vizi che non si consumano mai contro un solo uomo, né con una sola contumelia.

XIX. Guardiamo ora gli esempi di coloro di cui ammiriamo la pazienza, come Socrate, che accettò di buon animo e ridendovi sopra gli scherzi salaci a lui rivolti nelle commedie, rappresentate dinanzi a tutto il pubblico, mostrandosi non meno tollerante di quando la moglie Santippe gli rovesciò addosso un secchio d’acqua sporca. Antistene, a cui veniva sempre rinfacciato di avere una madre straniera, nativa della Tracia, rispondeva che lo era anche Cibele, la Madre degli dèi, perché del monte Ida. Mai litigare, dunque, o venire alle mani. Bisogna stare alla larga o far finta di niente, quali che siano le offese rivolteci dagli sprovveduti, che sono i soli a comportarsi così; tenere nello stesso conto sia le ingiurie che le lodi provenienti dal volgo, senza dolersi delle une e rallegrarsi delle altre. Diversamente, per timore degli insulti o perché punti da essi, finiremo col non prendere più nessuna iniziativa, anche se necessaria, trascureremo i nostri doveri, pubblici e privati, a volte anche certe decisioni che potrebbero essere per noi d’importanza vitale, e ciò, ripeto, per la paura, tipicamente femminile, di poterci sentir dire qualcosa che ci disturbi. Talvolta, magari, se ci capita di prendercela con i potenti, manifestiamo pure il nostro risentimento senza peli sulla lingua, ma teniamo presente che la libertà non consiste nel non soffrire niente – sbagliamo se la pensiamo così – bensì nel metterci al di sopra delle offese e nel sentirci tali da godere solo di ciò che ci deriva da noi stessi, nel dare un taglio netto a tutte le cose che ci sono estranee, per non essere costretti a passare la vita nel timore che tutti ci deridano e ci sparlino addosso. C’è infatti qualcuno che possa non offenderci, quando tutti ne hanno la possibilità? Il rimedio del saggio, tuttavia, è diverso da quello di chi aspira alla saggezza. Quelli che sono sulla strada, che non hanno ancora raggiunto la perfezione e si regolano sul giudizio della gente, devono avere ben chiaro che gli toccherà vivere fra le ingiurie e le contumelie e che se sapranno prevederle, se avranno l’animo già disposto a riceverle, le sentiranno più leggere. E tanto più dovranno mostrarsi forti quanto più sono in vista per nascita, per buona reputazione e ricchezza: si ricordino che le truppe scelte stanno in prima fila. Le contumelie, le parole oltraggiose, le infamie e tutti gli altri simili affronti li sopportino come si sopportano le urla dei nemici, i dardi scagliati da troppo lontano, e perciò meno pericolosi, come i sassi che crepitano sull’elmo senza recare alcuna ferita. Le ingiurie, invece, le sopportino come i colpi che si abbattono sulle armi o sulla corazza, ma che non riescono a buttare a terra o a far recedere di un passo. Anche se si è incalzati e spinti da una forza avversa, è vergognoso battere in ritirata: bisogna difenderlo il posto che la natura ci ha assegnato. «Quale posto?», mi chiederai. Quello che è proprio dell’uomo. Quanto al saggio, come dicevo, il rimedio è diverso, opposto a quello che consiglio a voi, che vi trovate sulla strada della saggezza: voi, infatti, siete ancora in guerra, lui ha già ottenuto la vittoria. Non opponetevi al vostro bene e, mentre procedete lungo il cammino che conduce al vero, alimentate nei vostri animi questa speranza, accogliete di buon grado i retti insegnamenti e coltivateli con convinzione e con fede: che vi siano degli uomini invitti, che non si lasciano mai piegare dalla sorte, è cosa utile al vivere civile dell’intera umanità.

Le Epistulae morales

Composte fra il 62 e il 65, le Epistulae sono 124 lettere, divise in 20 libri (quanti ne sono giunti a noi, perché Gellio parla di un XXII libro) e indirizzate a Lucilio, caro amico di Seneca e forse autore del poemetto Aetna incluso nell’Appendix Virgiliana. Le notizie su questo personaggio le ricaviamo da Seneca stesso, che lo dice ormai noto e ammirato «per il vigore dell’ingegno, l’eleganza della scrittura, le illustri e nobili amicizie» (19, 3), più giovane di lui (26, 7), cavaliere romano (44, 2), procuratore, a quell’epoca, in Sicilia (45, 1; 51, 1; 79, 1), originario della Campania e nativo di Pompei (49, 1). Non è certo se si tratti di una corrispondenza realmente avvenuta: i riferimenti continui a lettere inviate a Seneca dall’amico nonché ad altri particolari, come la causa intentata a Lucilio da un suo nemico (24, 1), fanno pensare di sì, almeno per quanto riguarda una parte delle lettere. È indubbio, comunque, che, come in altri autori di epistolari, vi sia stato anche in Seneca un intento letterario e quindi quello di pubblicare la raccolta per lasciare ai posteri un più pieno ricordo di sé, una specie di testamento spirituale («Scrivo per i posteri, è a loro che voglio essere utile, affidando alle mie pagine consigli salutari, come se fossero ricette di medicine, delle quali io stesso ho sperimentato l’efficacia sulle mie ferite… Mostro agli altri la retta via, che ho conosciuto tardi, quando ormai ero stanco per il lungo peregrinare», 8, 2-3; «Godrò del favore dei posteri», 21, 5). Le Lettere sono l’opera più importante di Seneca, sia perché racchiudono il succo delle sue meditazioni, sia perché rivelano maggiore maturità e perché contengono una grande quantità e varietà di temi. C’è poi in esse una più marcata originalità di pensiero. Rispetto alle altre opere il discorso appare qui più profondo e incisivo, giacché l’Autore non si abbandona a disquisizioni generiche e astratte, ma descrive cose e fatti della realtà, analizzando l’uomo nel suo duplice aspetto, fisico e spirituale insieme. Le Lettere sono anche l’opera migliore di Seneca perché in esse egli smette la veste del filosofo per indossare quella del precettore, che più gli si confà.

I primi tre libri, pubblicati da Seneca stesso, formano un corpo a sé e trattano di alcune regole di vita (I), della felicità, conseguibile solo attraverso lo studio della filosofia (II), degli ostacoli che a tale studio si oppongono e del modo in cui possono essere superati (III). Gli altri libri trattano di argomenti vari. Nell’insieme i temi svolti – senza un ordine sistematico ma secondo l’estro del momento – sono quelli che ricorrono nei Dialoghi, a cui le Lettere sono affini: la virtù, il vero bene, l’amicizia, il superamento delle passioni, i vizi da combattere, il divino nell’uomo, il dolore e i suoi rimedi, l’atteggiamento di fronte alla morte, tema, quest’ultimo, molto sentito da Seneca, a cui non restano ormai che pochi anni di vita. Seneca non ha la certezza della sopravvivenza dell’anima dopo la morte, che a volte considera semplicemente la fine di tutto, a volte invece un passaggio a un’altra condizione di vita, ma in ogni caso attende quell’evento con serenità: «Non temo di finire nel nulla, in quanto ciò equivale a non aver mai cominciato a vivere, e, anche se la morte non fosse che un trapasso a un’altra vita, non ne ho paura, poiché, dovunque io vada, nessun luogo mi starà così stretto come questo» (65, 24).

Ma in tanta varietà di argomenti è sempre presente la figura del saggio (nella quale Seneca traccia il suo ritratto ideale), perché sua è la virtù, sua è la vera felicità, suo l’amore per Dio, sua la serenità di fronte alla morte. Per l’insistenza di questo tema c’è nelle Lettere, nonostante la proclamata serenità di fronte alla morte, un fondo di tristezza e di pessimismo, riscattato da qualche barlume di speranza nell’immortalità. Le Lettere costituiscono un vero e proprio vademecum morale e cronologicamente la prima opera del genere dello stoicismo romano: le altre sono il Manuale di Epitteto e i Pensieri (o Colloqui con sé stesso) di Marco Aurelio.

L’ideale del saggio secondo Seneca, anche in riferimento alle altre sue opere, si può sintetizzare così: la meta dell’uomo è la felicità, conseguibile solo attraverso la filosofia, perché soltanto questa può guidarci alla virtù, unico vero bene dell’uomo, al superamento di tutti i piaceri e di tutti i desideri mondani e a un sereno equilibrio interiore. La filosofia è un insieme di contemplazione e di azione: la prima consente di vedere e giudicare le cose dall’alto, con distacco e serenità, attingendo alla Verità assoluta ed eterna, la seconda conduce alla realizzazione, dentro di noi, di quella stessa Verità, la quale è equilibrio, armonia, amore per il prossimo, superamento del male e del dolore. Il saggio non si abbatte di fronte alle sventure, non è toccato dalla sorte, perché passa indifferente in mezzo alle cose fortuite che provengono da lei. Non si turba nemmeno al pensiero della morte, che è pronto ad affrontare di sua mano, se necessario, giacché considera il suicidio un atto estremo di libertà.

Nelle Lettere Seneca anticipa delle teorie che solo molto più tardi cominceranno ad affermarsi, come quella relativa alla schiavitù, secondo la quale gli uomini sono tutti uguali. Ecco un passo della lettera 47, che è, in proposito, la testimonianza più alta: «Si dice: “Sono schiavi”. No, sono uomini. “Ma sono schiavi”. No: compagni che vivono nella nostra stessa dimora. “Ma sono sempre schiavi”. No, sono gli amici più umili. “Ma schiavi!”. Semmai compagni di schiavitù, se pensiamo che sia loro che noi siamo soggetti al potere e alla mutevolezza della sorte». Ma qualunque traduzione non rende l’efficacia e la stringatezza dell’originale, che riproduciamo integralmente: «“Servi sunt”. Immo homines. “Servi sunt”. Immo contubernales. “Servi sunt”. Immo humiles amici. “Servi sunt”. Immo conservi, si cogitaveris tantundem in utrosque licere fortunae». «Mostrami qualcuno che non sia schiavo», conclude Seneca, «uno lo è della libidine, uno della sete di denaro, un altro dell’ambizione, e tutti siamo schiavi della speranza e della paura».

Quanto alle fonti delle Lettere, ai pensatori e ai moralisti a cui Seneca mostra di avere attinto, vi sono nominati soprattutto Epicuro, Zenone e Posidonio, e poi Demetrio, Metrodoro e Aristone di Chio, lo stoico, sostenitore dell’indifferenza totale di fronte alle cose esteriori, che, come Seneca dice (89, 13), considerava la logica non solo inutile ma addirittura dannosa, e limitava anche la morale, quam solam reliquerat. Ma di quei princìpi, di quelle teorie, Seneca fa pane quotidiano, nutrimento vivo dello spirito, riuscendo a calare l’ideale nel reale, i più alti valori – che generalmente nei pensatori romani restano sul piano razionale – nel profondo dell’animo, e a ciò contribuisce la forma epistolare del trattato, che offre a Seneca la possibilità di un maggiore e più vivo contatto non solo col suo interlocutore, ma con tutti gli uomini.

Quelli che presentiamo sono i passi delle Epistulae morales che si riferiscono alla saggezza. Abbiamo ritenuto di aggiungerli al De constantia sapientis per fornire altri aspetti del saggio e concluderne così il ritratto da noi iniziato col De vita beata. Abbiamo legato fra loro i vari brani in modo da presentare il tutto come un’unica e lunga lettera. Per ottenere ciò, oltre a scegliere quelli che meglio si prestavano, abbiamo dovuto talvolta, per collegarli, fare ricorso ad espressioni o parole non presenti nel testo.

Il numero posto all’inizio di ogni brano, sia nel testo che nella traduzione, è quello della lettera: gli altri si riferiscono ai paragrafi. Nella traduzione di questi ultimi, per non spezzare la lettura, sono riportati alla fine tra parentesi. I vari passi all’interno di ogni brano sono separati fra loro da puntini di sospensione.

Dalle Epistulae morales

16. 11 Liquere hoc tibi, Lucili, scio, neminem posse beate vivere, ne tolerabiliter quidem, sine sapientiae studio, et beatam vitam perfecta sapientia effici, ceterum tolerabilem etiam inchoata. Sed hoc quod liquet firmandum et altius cotidiana meditatione figendum est: plus operis est in eo ut proposita custodias quam ut honesta proponas. Perseverandum est et adsiduo studio robur addendum, donec bona mens sit quod bona voluntas est… 22 Excute te et varie scrutare et observa; illud ante omnia vide, utrum in philosophia an in ipsa vita profeceris. 33 Non est philosophia populare artificium nec ostentationi paratum; non in verbis sed in rebus est. Nec in hoc adhibetur, ut cum aliqua oblectatione consumatur dies, ut dematur otio nausia: animum format et fabricat, vitam disponit, actiones regit, agenda et omittenda demonstrat, sedet ad gubernaculum et per ancipitia fluctuantium derigit cursum. Sine hac nemo intrepide potest vivere, nemo secure; innumerabilia accidunt singulis horis quae consilium exigant, quod ab hac petendum est.

17. 1 Proice omnia ista, si sapis, immo ut sapias, et ad bonam mentem magno cursu ac totis viribus tende; si quid est quo teneris, aut expedi aut incide. «Moratur» inquis «me res familiaris; sic illam disponere volo ut sufficere nihil agenti possit, ne aut paupertas mihi oneri sit aut ego alicui». 2 Cum hoc dicis, non videris vim ac potentiam eius de quo cogitas boni nosse; et summam quidem rei pervides, quantum philosophia prosit, partes autem nondum satis subtiliter dispicis, necdum scis quantum ubique nos adiuvet, quemadmodum et in maximis, ut Ciceronis utar verbo, «opituletur» et in minima descendat. Mihi crede, advoca illam in consilium: suadebit tibi ne ad calculos sedeas… 5 Si vis vacare animo, aut pauper sis oportet aut pauperi similis. Non potest studium salutare fieri sine frugalitatis cura; frugalitas autem paupertas voluntaria est. Tolle itaque istas excusationes: «nondum habeo quantum sat est»… 8 Ita est? Cum omnia habueris, tunc habere et sapientiam voles? Haec erit ultimum vitae instrumentum et, ut ita dicam, additamentum? Tu vero, sive aliquid habes, iam philosophare (unde enim scis an iam nimis habeas?), sive nihil, hoc prius quaere quam quicquam.

23. 6 Fac, oro te, Lucili carissime, quod unum potest praestare felicem: dissice et conculca ista quae extrinsecus splendent, quae tibi promittuntur ab alio vel ex alio; ad verum bonum specta et de tuo gaude. Quid est autem hoc «de tuo»? Te ipso et tui optima parte. Corpusculum quoque, etiam si nihil fieri sine illo potest, magis necessariam rem crede quam magnam; vanas suggerit voluptates, breves, paenitendas ac, nisi magna moderatione temperentur, in contrarium abituras. Ita dico: in praecipiti voluptas stat, ad dolorem vergit nisi modum tenuit; modum autem tenere in eo difficile est quod bonum esse credideris: veri boni aviditas tuta est. 7 Quod sit istud interrogas, aut unde subeat? Dicam: ex bona conscientia, ex honestis consiliis, ex rectis actionibus, ex contemptu fortuitorum, ex placido vitae et continuo tenore unam prementis viam.

31. 2 Ad summam sapiens eris, si cluseris aures, quibus ceram parum est obdere: firmiore spissamento opus est quam in sociis usum Ulixem ferunt. Illa vox quae timebatur erat blanda, non tamen publica: at haec quae timenda est non ex uno scopulo sed ex omni terrarum parte circumsonat… 6 Quid ergo est bonum? Rerum scientia. Quid malum est? Rerum imperitia. Ille prudens atque artifex pro tempore quaeque repellet aut eliget; sed nec quae repellit timet nec miratur quae eligit, si modo magnus illi et invictus animus est… 8 Huc et illud accedat, ut perfecta virtus sit, aequalitas ac tenor vitae per omnia consonans sibi, quod non potest esse nisi rerum scientia contingit et ars per quam humana ac divina noscantur. Hoc est summum bonum; quod si occupas, incipis deorum socius esse, non supplex… 94 «Quomodo» inquis «isto pervenitur?». Non per Poeninum Graiumve montem nec per deserta Candaviae; nec Syrtes tibi nec Scylla aut Charybdis adeundae sunt, quae tamen omnia transisti procuratiunculae pretio: tutum iter est, iucundum est, ad quod natura te instruxit. Dedit tibi illa quae si non deserueris, par deo surges… 11 Finges autem non auro vel argento: non potest ex hac materia imago deo exprimi similis; cogita illos, cum propitii essent, fictiles fuisse.

41. 25 Ita dico, Lucili: sacer intra nos spiritus sedet, malorum bonorumque nostrorum observator et custos; hic prout a nobis tractatus est, ita nos ipse tractat. Bonus vero vir sine deo nemo est: an potest aliquis supra fortunam nisi ab illo adiutus exsurgere? Ille dat consilia magnifica et erecta… 4 Si hominem videris interritum periculis, intactum cupiditatibus, inter adversa felicem, in mediis tempestatibus placidum, ex superiore loco homines videntem, ex aequo deos, non subibit te veneratio eius? Non dices, «ista res maior est altiorque quam ut credi similis huic in quo est corpusculo possit»? 5 Vis isto divina descendit; animum excellentem, moderatum, omnia tamquam minora transeuntem, quidquid timemus optamusque ridentem, caelestis potentia agitat. Non potest res tanta sine adminiculo numinis stare; itaque maiore sui parte illic est unde descendit.

59. 146 Iam docebo quemadmodum intellegas te non esse sapientem. Sapiens ille plenus est gaudio, hilaris et placidus, inconcussus; cum dis ex pari vivit. Nunc ipse te consule: si numquam maestus es, si nulla spes animum tuum futuri expectatione sollicitat, si per dies noctesque par et aequalis animi tenor erecti et placentis sibi est, pervenisti ad humani boni summam; sed si appetis voluptates et undique et omnes, scito tantum tibi ex sapientia quantum ex gaudio deesse. Ad hoc cupis pervenire, sed erras, qui inter divitias illuc venturum esse te speras, inter honores, id est gaudium inter sollicitudines quaeris: ista, quae sic petis tamquam datura laetitiam ac voluptatem, causae dolorum sunt… 16 Hoc ergo cogita, hunc esse sapientiae effectum, gaudii aequalitatem. Talis est sapientis animus qualis mundus super lunam: semper illic serenum est. Habes ergo et quare velis sapiens esse, si numquam sine gaudio est.

71. 27 Non educo sapientem ex hominum numero nec dolores ab illo sicut ab aliqua rupe nullum sensum admittente summoveo. Memini ex duabus illum partibus esse compositum: altera est inrationalis, haec mordetur, uritur, dolet; altera rationalis, haec inconcussas opiniones habet, intrepida est et indomita. In hac positum est summum illud hominis bonum. Antequam impleatur, incerta mentis volutatio est; cum vero perfectum est, inmota illi stabilitas est… 29 Ne extra rerum naturam vagari virtus nostra videatur, et tremet sapiens et dolebit et expallescet; hi enim omnes corporis sensus sunt. Ubi ergo calamitas, ubi illud malum verum est? Illic scilicet, si ista animum detrahunt, si ad confessionem servitutis adducunt, si illi paenitentiam sui faciunt… 32 Quid erit haec virtus? Iudicium verum et inmotum; ab hoc enim impetus venient mentis, ab hoc omnis species quae impetum movet redigetur ad liquidum… 36 Instemus itaque et perseveremus; plus quam profligavimus restat, sed magna pars est profectus velle proficere. Huius rei conscius mihi sum: volo et mente tota volo. Te quoque instinctum esse et magno ad pulcherrima properare impetu video. Properemus: ita demum vita beneficium erit; alioquin mora est, et quidem turpis inter foeda versantibus. Id agamus ut nostrum omne tempus sit; non erit autem, nisi prius nos nostri esse coeperimus.

74. 1 Quidni tu, mi Lucili, maximum putes instrumentum vitae beatae hanc persuasionem unum bonum esse quod honestum est? Nam qui alia bona iudicat in fortunae venit potestatem, alieni arbitrii fit: qui omne bonum honesto circumscripsit intra se felix . 2 Hic amissis liberis maestus, hic sollicitus aegris, hic turpibus et aliqua sparsis infamia tristis; illum videbis alienae uxoris amore cruciari, illum suae; non deerit quem repulsa distorqueat; erunt quos ipse honor vexet… 307 Non adfligitur sapiens liberorum amissione, non amicorum; eodem enim animo fert illorum mortem quo suam expectat; non magis hanc timet quam illam dolet. Virtus enim convenientia constat: omnia opera eius cum ipsa concordant et congruunt. Haec concordia perit si animus, quem excelsum esse oportet, luctu aut desiderio summittitur. Inhonesta est omnis trepidatio et sollicitudo, in ullo actu pigritia; honestum enim securum et expeditum est, interritum est, in procinctu stat. 31 «Quid ergo? Non aliquid perturbationi simile patietur? Non et color eius mutabitur et vultus agitabitur et artus refrigescent? Et quidquid aliud non ex imperio animi, sed inconsulto quodam naturae impetu geritur?». Fateor; sed manebit illi persuasio eadem, nihil illorum malum esse nec dignum ad quod mens sana deficiat.

92. 19 Invenitur qui dicat sapientem corpore parum prospero usum nec miserum esse nec beatum… 21 «Frigidum» inquit «aliquid et calidum novimus, inter utrumque tepidum est; sic aliquis beatus est, aliquis miser, aliquis nec beatus nec miser». Volo hanc contra nos positam imaginem excutere. Si tepido illi plus frigidi ingessero, fiet frigidum; si plus calidi adfudero, fiet novissime calidum. At huic nec misero nec beato quantumcumque ad miserias adiecero, miser non erit, quemadmodum dicitis; ergo imago ista dissimilis est. Deinde trado tibi hominem nec miserum nec beatum. Huic adicio caecitatem: non fit miser; adicio debilitatem: non fit miser; adicio dolores continuos et graves: miser non fit. Quem tam multa mala in miseram vitam non transferunt ne ex beata quidem educunt… 25 «Beatissimum» inquit «hunc et ultimum diem ago» Epicurus, cum illum hinc urinae difficultas torqueret, hinc insanabilis exulcerati dolor ventris. 26 Quare ergo incredibilia ista sint apud eos qui virtutem colunt, cum apud eos quoque reperiantur apud quos voluptas imperavit?

104. 27 Si tamen exemplum desideratis, accipite Socraten, perpessicium senem, per omnia aspera iactatum, invictum tamen et paupertate, quam graviorem illi domestica onera faciebant, et laboribus, quos militares quoque pertulit… 28 Post haec carcer et venenum. Haec usque eo animum Socratis non moverant ut ne vultum quidem moverint. O illam mirabilem laudem et singularem! Usque ad extremum nec hilariorem quisquam nec tristiorem Socraten vidit; aequalis fuit in tanta inaequalitate fortunae. 298 Vis alterum exemplum? Accipe hunc M. Catonem recentiorem, cum quo et infestius fortuna egit et pertinacius… Tota illi aetas aut in armis est exacta civilibus aut †intacta† concipiente iam civile bellum; et hunc licet dicas non minus quam Socraten †inseruisse dixisset†… 30 Nemo mutatum Catonem totiens mutata re publica vidit; eundem se in omni statu praestitit, in praetura, in repulsa, in accusatione, in provincia, in contione, in exercitu, in morte… 32 Quid habebat quod timeret qui ipse sibi et victo et victori constituerat quae constituta esse ab hostibus iratissimis poterant? Perit itaque ex decreto suo. 33 Vides posse homines laborem pati: per medias Africae solitudines pedes duxit exercitum. Vides posse tolerari sitim: in collibus arentibus sine ullis inpedimentis victi exercitus reliquias trahens inopiam umoris loricatus tulit et, quotiens aquae fuerat occasio, novissimus bibit. Vides honorem et notam posse contemni: eodem quo repulsus est die in comitio pila lusit. Vides posse non timeri potentiam superiorum: et Pompeium et Caesarem, quorum nemo alterum offendere audebat nisi ut alterum demereretur, simul provocavit. Vides tam mortem posse contemni quam exilium: et exilium sibi indixit et mortem et interim bellum. 34 Possumus itaque adversus ista tantum habere animi, libeat modo subducere iugo collum. In primis autem respuendae voluptates: enervant et effeminant et multum petunt, multum autem a fortuna petendum est. Deinde spernendae opes: auctoramenta sunt servitutum. Aurum et argentum et quidquid aliud felices domos onerat relinquatur: non potest gratis constare libertas. Hanc si magno aestimas, omnia parvo aestimanda sunt.

105. 19 Quae observanda tibi sint ut tutior vivas dicam. Tu tamen sic audias censeo ista praecepta quomodo si tibi praeciperem qua ratione bonam valetudinem in Ardeatino tuereris. Considera quae sint quae hominem in perniciem hominis instigent: invenies spem, invidiam, odium, metum, contemptum. 2 Ex omnibus istis adeo levissimum est contemptus ut multi in illo remedii causa delituerint. Quem quis contemnit, calcat sine dubio sed transit; nemo homini contempto pertinaciter, nemo diligenter nocet; etiam in acie iacens praeteritur, cum stante pugnatur. 3 Spem inproborum vitabis si nihil habueris quod cupiditatem alienam et inprobam inritet, si nihil insigne possederis; concupiscuntur enim etiam † pars innotarum sunt sic raro†. Invidiam effugies si te non ingesseris oculis, si bona tua non iactaveris, si scieris in sinu gaudere. Odium aut est ex offensa (hoc vitabis neminem lacessendo) aut gratuitum, a quo te sensus communis tuebitur. Fuit hoc multis periculosum: quidam odium habuerunt nec inimicum. 4 Illud, ne timearis, praestabit tibi et fortunae mediocritas et ingeni lenitas… 5 Contemptus superest, cuius modum in sua potestate habet qui illum sibi adiunxit, qui contemnitur quia voluit, non quia debuit… 7 Securitatis magna portio est nihil inique facere: confusam vitam et perturbatam inpotentes agunt; tantum metuunt quantum nocent, nec ullo tempore vacant.

124. 22 Quid, inquam, vires corporis alis et exerces? Pecudibus istas maiores ferisque natura concessit. Quid excolis formam? Cum omnia feceris, a mutis animalibus decore vinceris. Quid capillum ingenti diligentia comis? Cum illum vel effuderis more Parthorum vel Germanorum modo vinxeris vel, ut Scythae solent, sparseris, in quolibet equo densior iactabitur iuba, horrebit in leonum cervice formonsior. Cum te ad velocitatem paraveris, par lepusculo non eris. 23 Vis tu relictis in quibus vinci te necesse est, dum in aliena niteris, ad bonum reverti tuum? Quod est hoc? Animus scilicet emendatus ac purus, aemulator dei, super humana se extollens, nihil extra se sui ponens. Rationale animal es. Quod ergo in te bonum est? Perfecta ratio. Hanc tu ad suum finem hinc evoca, sine in quantum potest plurimum crescere. 24 Tunc beatum esse te iudica cum tibi ex te gaudium omne nascetur, cum visis quae homines eripiunt, optant, custodiunt, nihil inveneris, non dico quod malis, sed quod velis. Brevem tibi formulam dabo qua te metiaris, qua perfectum esse iam sentias: tunc habebis tuum cum intelleges infelicissimos esse felices.

Dalle Lettere morali

16. Caro Lucilio, nessuno può vivere felice, e nemmeno in maniera tollerabile, se non coltiva la saggezza: ciò, ne sono certo, è evidente anche a te. Ma se una saggezza perfetta rende felice la vita, una saggezza imperfetta, o non ancora pienamente raggiunta, la rende quantomeno sopportabile. Non basta, però, aver chiaro questo concetto, bisogna confermarlo e scolpirlo nel profondo dell’animo giorno per giorno con un’assidua meditazione, perché mantenere i buoni propositi richiede maggiore fatica che concepirli: bisogna insistere e irrobustire tutte le nostre forze con un’applicazione costante, sino a che l’animo non diventi buono, come buona è la nostra intenzione…

Fruga bene, scava in ogni angolo della tua coscienza, e per prima cosa cerca di capire se hai fatto più progressi nella filosofia che nella vita pratica. La filosofia non è un artificio, una geniale trovata per incantare la gente o per mettersi in mostra: è fatta di cose concrete, non di parole, né serve a far passare piacevolmente le giornate o a scacciare la nausea generata da un’esistenza oziosa e inconcludente. La filosofia plasma ed educa l’animo, insegna a distribuire opportunamente la vita, guida le nostre azioni, mostra ciò che si deve o non si deve fare, è come un timoniere che mantiene la giusta rotta in un mare agitato e pieno di rischi. Senza di lei nessuno può vivere tranquillo, privo di affanni e di timori. In ogni ora, in ogni momento ci si presentano una grande quantità di situazioni che richiedono un consiglio, e questo non può darcelo che la filosofia (1, 2, 3).

17. Se sei saggio, o, meglio, se aspiri alla saggezza, lascia le cose vane e senza perdere tempo volgiti a questa meta con tutte le tue forze, e se qualcosa te lo impedisce adoperati per venirne fuori, o tronca subito ogni legame. «Mi trattiene», dici, «la cura dei miei beni: vorrei disporli in modo che possano bastarmi anche se resto inattivo, perché non mi sia di peso la povertà o non debba io stesso gravare su qualcuno». A sentirti dire queste cose ho l’impressione che tu non conosca la forza e il potere di quel bene a cui aspiri: tu hai una visione generica della filosofia e della sua utilità, riesci ad abbracciarla nell’insieme, ma non sei ancora in grado di vederne i particolari con sufficiente acume, non sai ancora quanto e in quali casi ci sia di aiuto, come ci “soccorra” – per dirla con Cicerone – non solo nelle situazioni più importanti ma anche in quelle di pochissimo conto. Dammi retta, chiedile consiglio: ti convincerà a non startene lì seduto a contare le entrate e le uscite… Se vuoi dedicarti allo spirito devi essere povero, o perlomeno vivere come se lo fossi. Lo studio non è salutare senza la moderazione, e questa è una povertà volontaria. Metti perciò da parte queste scuse, non dire: «Non possiedo ancora la somma necessaria per potermi dedicare interamente alla filosofia»… Vuoi la ricchezza e in più essere anche saggio? La saggezza per te non è che un’aggiunta, un ornamento, e perdipiù l’ultimo, della vita? Se già possiedi qualcosa, dedicati alla filosofia (come potresti sapere, altrimenti, se quel che possiedi ti basta?), se invece sei povero, cercala prima di qualunque altra cosa (1, 2, 5, 8).

23. Ti prego, Lucilio mio carissimo, fa’ la sola e unica cosa che può renderti felice: calpesta e distruggi questi beni che splendono solo esteriormente, che non dipendono da te ma ti sono dati da altri, dalla sorte; aspira al bene vero e godi solo di te. Quanto al corpo, questa piccola cosa materiale, consideralo pure necessario, poiché niente possiamo senza di lui, ma non più importante dello spirito: i piaceri che ci procura sono vani, di breve durata, tanto che poi ci pentiamo di averli provati, e se non sono tenuti a freno da una grande moderazione producono addirittura l’effetto contrario. È così: il piacere cammina come su un filo sospeso sopra un precipizio e se non si tiene dentro la giusta misura si trasforma in dolore. Ma è difficile tenere la giusta misura in ciò che, a torto, si considera un bene. Solo la voglia del vero bene, anche se smodata, è priva di rischi. Vuoi sapere quale sia questo bene e da dove provenga? Te lo dico subito: è quello che deriva da una coscienza retta, da propositi onesti e da un agire conforme, dal disprezzo di tutto ciò ch’è fortuito, da un tenore di vita tranquillo e costante, quale è quello di chi non si allontana mai dal giusto cammino intrapreso (6, 7).

31. In poche parole, raggiungerai la saggezza solo se diverrai sordo ai rumori del mondo. Ma non basta che ti tappi gli orecchi con la cera: a te occorre un materiale ben più solido di quello imposto da Ulisse ai suoi compagni: le voci che temeva l’eroe greco erano allettanti ma provenivano da un punto solo e non da una moltitudine di persone, mentre queste che dobbiamo temere noi risuonano non da uno scoglio ma da ogni angolo della terra… Cos’è dunque il bene? La giusta conoscenza delle cose. E il male? L’ignoranza di esse. Il saggio, prudente ed esperto com’è, respinge o sceglie ogni cosa secondo le circostanze, e, poiché ha un animo grande e invincibile, non teme ciò che respinge e non prova ammirazione per ciò che sceglie… Ora, affinché la virtù sia perfetta bisogna che a ciò si aggiungano uniformità di pensiero e una condotta di vita coerente in tutte le cose, il che è impossibile se mancano la conoscenza della realtà e il possesso di quell’arte, la filosofia, attraverso la quale è possibile avere una chiara comprensione non solo delle cose umane ma anche di quelle divine. Ecco, questo è il sommo bene, e se lo raggiungi cominci a essere compagno degli dèi, non più uno che si rivolge a loro implorandone l’aiuto. «E in che modo», mi chiedi, «vi si arriva?». Non attraverso montagne impervie come le Alpi Graie o le Pennine, e neppure attraverso i deserti della Candavia; né devi affrontare le difficili Sirti e tantomeno Scilla o Cariddi: ostacoli di tal genere hai dovuto superarli per procurarti il tuo piccolo impiego; la strada verso la saggezza, invece, è sicura, piacevole, per giunta, e la natura stessa ti ha fornito i mezzi per intraprenderla, ti ha dato qualità che, se saprai farle fruttare, ti innalzeranno alla pari di un dio… Ciò, però, non potrai ottenerlo con l’oro o con l’argento: da questi metalli non si può tirar fuori un’immagine che somigli alla divinità. Pensa che gli dèi, quando ci erano propizi, erano fatti di creta (2, 6, 8, 9, 11).

41. Io sono convinto, Lucilio, che dentro di noi risiede uno spirito sacro, il quale osserva e controlla tutte le nostre azioni, quelle buone e quelle cattive, e si comporta con noi allo stesso modo in cui noi ci comportiamo con lui. Nessun uomo virtuoso, in verità, può essere tale se in lui non c’è la presenza di un dio: chi potrebbe infatti elevarsi al di sopra della sorte senza l’aiuto della divinità? È lei che ci ispira nobili e alti princìpi… Quando vedi un uomo imperterrito di fronte ai pericoli, libero da passioni, tranquillo nelle avversità, che contempla gli uomini dall’alto, come fanno gli dèi, non ti pervade un senso di rispetto per lui? Non ti dici: «Questa sua dote è troppo grande e troppo alta perché possa appartenere al piccolo e misero corpo in cui si trova»? Una forza divina è discesa in quest’uomo, una potenza celeste guida il suo spirito straordinario, equilibrato, che va oltre le cose esteriori, come se non contassero niente, che se la ride dei nostri timori e dei nostri desideri. Un tale essere non potrebbe mantenersi così saldo, senza l’aiuto di un dio. Perciò la parte maggiore di lui non sta qui sulla terra, ma lassù, da dove appunto è discesa (2, 4, 5).

59. T’insegnerò ora come tu possa capire se possiedi o no la saggezza. Il saggio è pieno di gioia, tranquillo, sereno, imperturbabile, vive alla pari con gli dèi. E adesso guarda te: se non sei mai triste, se non hai alcuna speranza che ti faccia trepidare in attesa del futuro, se notte e giorno il tuo animo, fiero e soddisfatto di sé, mantiene sempre lo stesso atteggiamento, allora sei pervenuto al culmine dell’umano bene; ma se vai in cerca dei piaceri, di qualunque specie e dovunque tu possa trovarli, non potrai essere né saggio né felice. Sbagli se, pur avendone la volontà, speri di raggiungere la saggezza fra le ricchezze e gli onori, che è come ricercare la felicità in mezzo agli affanni e alle preoccupazioni: codesti beni a cui aspiri, illudendoti che possano darti gioia e piacere, sono causa di dolori… Rifletti, dunque: il risultato della saggezza è una felicità stabile. L’animo del saggio è come il cielo sulla luna: è sempre limpido e sereno. Vedi quindi se non hai un valido motivo per desiderare la saggezza, quando questa ti procura una gioia costante e sicura (14, 16).

71. Con tutto ciò non considero il saggio un’eccezione fra gli uomini, né gli nego il dolore, quasi fosse una roccia priva di sensibilità. Non dimentico che è formato di due parti, una delle quali è irrazionale, e perciò soffre, è agitata dai sensi e dal fuoco delle passioni, l’altra è razionale, e come tale ha le sue convinzioni, ed è animosa e indomabile. È in questa che risiede il sommo bene dell’uomo. Certo, finché non è satura di conoscenza, la mente è instabile, indecisa, ma quando è giunta alla perfezione, quando si è pienamente realizzata, nulla la smuove dalla sua fermezza… La virtù del saggio non è una dote estranea alla natura umana, sbagli se pensi così, anche il saggio è soggetto ad aver paura, a soffrire, a impallidire: tutte queste, infatti, sono sensazioni fisiche, ma non costituiscono un male, diventano mali se avviliscono l’animo, se lo spingono a dichiararsene schiavo e a provare disgusto di sé… E cos’è questa virtù? La capacità di un giudizio certo e immutabile; e poiché da un simile giudizio derivano gl’impulsi della mente, le immagini generate da tali impulsi saranno necessariamente limpide e certe… Insistiamo, dunque, e perseveriamo; ci restano da abbattere più ostacoli di quanti sino a ora non ne abbiamo abbattuti, ma il volere andare avanti è già un progresso notevole. Per quel che mi riguarda sono conscio di questo: io voglio, e voglio con tutte le forze della mente e dell’animo. Vedo che anche tu provi gli stessi stimoli e che con grande slancio aneli di pervenire alle più belle conquiste. Affrettiamoci a raggiungerle: soltanto allora la vita ci apparirà un beneficio; diversamente essa non è che un indugiare inutile, e per di più spregevole per coloro che vivono in mezzo alle brutture. Comportiamoci in modo che il tempo che trascorriamo sia interamente nostro, e non lo sarà se prima non avremo pensato a noi stessi (27, 29, 32, 36).

74. Convinciti dunque, Lucilio mio, che il mezzo migliore per vivere una vita felice è la virtù, l’unico nostro vero e autentico bene. Chi crede infatti che altri siano i beni si pone alla mercé della sorte, diventa schiavo del volere altrui, e perciò non può essere felice. Chi si addolora per aver perso i figli, o si preoccupa perché sono malati, chi si rattrista perché compiono azioni disoneste e si sono coperti d’infamia, chi è tormentato dall’amore per la propria donna o per quella di un altro; chi si affligge per un insuccesso elettorale o sta in ansia perché occupa un posto di prestigio… Il saggio, invece, non si addolora per la perdita di un figlio o di un amico, ma ne sopporta la morte con la stessa forza d’animo con cui è pronto ad accettare la sua: non ha paura di questa più di quanto non si dolga di quella. La virtù, infatti, è armonia, e a questa si conforma e si accorda la condotta del saggio, in tutte le cose. Se lo spirito, la cui funzione è quella di elevarsi al di sopra di tutto ciò che è terreno, è sopraffatto dai lutti e dal rimpianto, non c’è virtù: non sono un bene le ansie, le preoccupazioni e l’indolenza nell’agire; lo sono invece la serenità, la libertà, l’imperturbabilità e la combattività. «Ma come?», obietterai. «Il saggio non patirà alcunché che possa avvicinarsi a un’emozione? Non sbiancherà in viso, non avrà mai un segno di turbamento nel volto, mai un brivido percorrerà il suo corpo? Non avrà, insomma, nessuna di quelle manifestazioni che dipendono non dalla volontà, dal dominio della ragione, ma da un inconsulto impulso naturale?». Le avrà, sì, ma resterà comunque fermo nella convinzione che nessuna di quelle cose che lo toccano sia un male e che di fronte a esse una mente saggia non debba cedere (1, 2, 30, 31).

92. Alcuni, poi, sostengono che il saggio malato di corpo se non è infelice non è neppure felice… Come tra il freddo e il caldo c’è il tiepido, essi dicono, così tra il felice e l’infelice c’è chi non è né felice né infelice. Il paragone non è appropriato e te lo dimostrerò con un esempio. Se io aggiungo più liquido freddo a un liquido tiepido, questo diventa freddo, se gliene aggiungo una quantità maggiore di caldo, diventa caldo. Ma se vado aggiungendo altre disgrazie a chi non è né felice né infelice, non necessariamente egli diventa infelice. Se ai mali di uno che non è né felice né infelice aggiungo la cecità, non per questo egli diventa infelice; gli aggiungo anche la debolezza: resta come prima; dolori gravi e continui: nemmeno così diventa infelice. Se dunque tanti mali non riescono a condurlo all’infelicità, essi non possono nemmeno precludergli la felicità… Epicuro, benché tormentato da difficoltà urinarie e dal dolore di un’ulcera inguaribile al ventre, esclamò: «Sono felicissimo anche in questo mio ultimo giorno». Ora, perché un simile atteggiamento dovrebbe sembrare impossibile in chi pratica la virtù, se lo si trova anche in coloro che, come Epicuro, obbediscono al piacere? (19, 21, 22, 25, 26).

104. Vuoi un esempio? Guarda Socrate, vecchio e paziente: tormentato da ogni sorta di sventure, non fu piegato né dalla povertà, che il peso della famiglia gli rendeva ancora più grave, né dai disagi che dovette sopportare anche in guerra… E alla fine gli toccarono pure il carcere e il veleno. Ma non un turbamento, nell’animo e nel volto. Oh, quale vanto, unico e sublime! Nessuno vide Socrate sino all’ultimo istante della sua vita o più lieto o più triste: in tanto variare di casi egli rimase sempre lo stesso. Un altro esempio? Catone il giovane. Contro di lui il destino fu ancora più avverso e ostinato… Passò tutta la vita in una continua guerra civile, o in una pace che la covava nel seno, ed è lecito dire che si affrancò dalla schiavitù non meno degnamente di Socrate… In tanto mutare dello Stato nessuno vide mai un solo cambiamento in Catone: egli fu sempre lo stesso in ogni condizione, nella pretura, nella sconfitta elettorale, nel momento dell’accusa, nel governo della provincia, nei discorsi in pubblico, nella morte… Che cosa aveva da temere, quando – fosse egli uscito vincitore o vinto nella lotta tra Cesare e Pompeo (al di sopra dei quali lui, unico fra tutti, poneva la repubblica) – si era già votato alla morte, una pena che solo i più accesi nemici potevano infliggergli? Morì, dunque, per sua determinazione. Guarda se gli uomini non possono sopportare la fatica: egli condusse a piedi l’esercito attraverso i deserti dell’Africa. Guarda se non è possibile sopportare la sete: su aride colline, senza vettovaglie, trascinandosi dietro i resti dell’esercito sconfitto, tollerò la mancanza d’acqua con tutta la corazza addosso e quando trovava una sorgente era sempre l’ultimo a bere. Guarda se non si possono disprezzare al medesimo tempo onore e infamia: nel giorno stesso in cui fu battuto alle elezioni giocò a palla nel luogo dove si tenevano i comizi. Guarda se si può non temere il potere dei più forti: osò sfidare Cesare e Pompeo contemporaneamente, quando nessuno aveva il coraggio di offendere l’uno senza accattivarsi al tempo stesso il favore dell’altro. Guarda se non si possono disprezzare e l’esilio e la morte: egli impose a sé stesso sia l’uno che l’altra, e, nel frattempo, la guerra. Anche noi, dunque, possiamo mostrare di fronte alle sventure la stessa forza d’animo, se vogliamo liberarci dalla loro schiavitù. Rifiutiamo innanzitutto i piaceri, i quali snervano, rendono fiacchi e pretendono molto, un molto che poi dipende dalla fortuna. Disprezziamo quindi le ricchezze, che sono il prezzo di una schiavitù. Mettiamo da parte l’oro, l’argento e tutto ciò che riempie le case dei ricchi: la libertà richiede sacrifici. Se la si apprezza molto, tutto il resto non conta (27, 28, 29, 30, 32, 33, 34).

105. Queste sono le regole che devi osservare per vivere sereno. Ti chiedo però di ascoltare i miei insegnamenti come se io ti consigliassi il modo di proteggere la tua salute nella zona malsana di Ardea. Considera i motivi che possono spingere un uomo a far del male a un altro: vi troverai la speranza, l’invidia, l’odio, la paura, il disprezzo. Quest’ultimo è il meno grave di tutti, tanto è vero che molti per difendersi si trincerano dietro di esso. Chi disprezza calpesta, è vero, ma passa oltre: nessuno si accanisce più di tanto contro una persona che disprezza, così come in una battaglia si scavalcano i caduti per combattere con chi sta in piedi. La speranza dei malvagi potrai evitarla se non possederai nulla di rilevante che possa suscitare la loro cattiva cupidigia: si desiderano infatti anche beni di poco conto, quando siano insoliti e rari. All’invidia potrai sottrarti se eviterai di metterti in mostra, di ostentare i tuoi beni esteriori, se saprai godere solo di quelli che sono dentro di te. Quanto all’odio, esso o nasce da un’offesa, e tu allora potrai evitarlo non provocando nessuno, oppure è gratuito, e in questo caso sarà il buon senso a difendertene. Tieni però presente che molti sono stati odiati ingiustamente, senza che avessero un nemico. Per non essere temuto ti bastano un’indole mite e una fortuna modesta… Resta il disprezzo, ma a questo, se sei stato tu stesso a procurartelo, se cioè te lo sei voluto ma non lo hai meritato, puoi dare il peso che vuoi… Quanto alla sicurezza, essa in gran parte dipende dal non far niente di male a chicchessia: le persone violente vivono nell’inquietudine e nella confusione, non sono mai tranquille e provano tante paure quante sono le loro cattiverie (1, 2, 3, 4, 5, 7).

124. E ora ti chiedo: «Perché eserciti e accresci il tuo vigore fisico?». La natura ha concesso forze ben maggiori alle bestie, domestiche e feroci. «Perché curi la tua bellezza?». Per quanto tu ti adoperi, gli animali saranno sempre più leggiadri di te. «Perché ti acconci i capelli con tanta accuratezza?». Anche se li portassi sciolti come i Parti, annodati come i Germani, o scomposti come gli Sciti, la criniera di qualsiasi cavallo ondeggerà più folta ed una ancora più bella si drizzerà sul collo del leone. E per quanto ti eserciti nella corsa non potrai eguagliare in velocità il leprotto. Metti dunque da parte tutto ciò in cui non sarai mai superiore agli altri, non sforzarti in cose che sono estranee alla tua natura e volgiti al tuo bene. E qual è questo bene? Un animo puro, senza difetti, emulo di dio, che si innalza al di sopra delle vicende umane, che ripone tutto in sé stesso. Sei un animale fornito di ragione: rendila perfetta, questo è il tuo bene. Richiamala alla sua meta, falla cre scere quanto più può. Ritieniti felice solo quando ogni gioia ti verrà dal tuo intimo, quando in mezzo a tutti quei beni che gli uomini cercano, acchiappano e custodiscono gelosamente non ne troverai uno solo che tu possa non dico preferire ma neppure desiderare. Ed eccoti una piccola norma in base alla quale potrai misurare via via il tuo cammino verso la saggezza e accorgerti, alla fine, di avere raggiunto la perfezione: quando avrai capito che gli uomini comunemente felici sono in realtà i più infelici, allora e soltanto allora avrai pieno possesso della tua ricchezza (22, 23, 24).

 

Nota biobibliografica

VITA E OPERE

Lucio Annèo Seneca nasce il 4 a.C. a Cordova, in Spagna, da Lucio (o Marco) Annèo Seneca, detto “il Vecchio” – maestro di eloquenza (autore di un manuale di retorica, Oratorum et rhetorum sententiae, divisiones, colores) – e da Elvia, donna bellissima e virtuosa, che avrà gran parte nella sua formazione morale. (Furono suoi fratelli Marco Annèo Novato, più grande di lui, che prese il nome di Gallione, e Marco Annèo Mela, padre di Lucano, l’autore del poema Pharsalia.) Venuto a Roma ancora bambino con la famiglia (Mela resta in Spagna), intraprende gli studi di grammatica e di retorica, mostrando subito, però, un vivo interesse per i grandi problemi filosofici, e dell’etica in particolare. Sotto la guida e l’influsso dei suoi maestri, gli stoici Attalo e Papirio Fabiano, il cinico Demetrio e, soprattutto, il neopitagorico Sozione, si avvia verso un ideale di vita ascetica, imponendosi rigide rinunce a mortificazione del corpo, fra cui l’astensione dalla carne.

Gracile di natura e piuttosto cagionevole, affetto da una grave malattia (forse una forma acuta di asma), il 16 d.C. si trasferisce in Egitto, dove rimane per circa quindici anni presso una zia materna (moglie del prefetto del luogo Gaio Galerio), non solo per curare la propria salute, ancora più compromessa da quel suo tenore di vita, ma anche per un bisogno di raccoglimento interiore. Nel 19 una crisi fisica e morale lo porta a meditare il suicidio. Nel 31 ritorna a Roma, dove, distolto dal padre dal suo ideale di vita, intraprende la carriera forense, rivelandosi un brillante oratore. Il Foro e gli appoggi della zia, tornata a Roma con lui, gli aprono la strada alla carriera politica e ottiene la questura (33).

Affermatosi ormai come avvocato e oratore, salito al potere Caligola, la sua eloquenza suscita le gelosie del Senato e dello stesso imperatore, che la definisce arena sine calce e che dopo avere ascoltato una sua orazione (come narra Cassio Dione, LIX, 19, 7) decide di dargli la morte, ma poi lo risparmia perché convinto da una sua favorita che in breve morirà per consunzione.

Nel 40 scrive la Consolatio ad Marciam, nel 41, salito al trono Claudio, nominato pretore, in seguito a un intrigo di corte e comunque a opera della gelosa Messalina, che non vede di buon occhio la sua amicizia con Giulia Livilla, sorella di Caligola e di Agrippina, viene accusato di adulterio insieme alla giovane principessa e condannato all’esilio in Corsica. Giulia Livilla, esiliata anch’essa, sarà poi messa a morte. Alcuni non escludono un suo rapporto anche con Agrippina (v. Cassio Dione, LXI, 10). Sono otto anni di una vita solitaria e triste, durante i quali scrive il De ira, la Consolatio ad Helviam matrem e la Consolatio ad Polybium (liberto dell’imperatore, al quale è morto un fratello), in cui elogia Claudio, probabilmente per ingraziarselo, definendolo «forza e consolazione», «splendido come un dio», e rivolgendo un invito alla fortuna affinché lo lasci in vita, sì che possa «rimediare ai lunghi patimenti del genere umano; sempre rifulga quest’astro sul mondo, le cui tenebre furono ricreate dalla sua luce». È la sua opera più discussa per piaggeria e incoerenza.

Nel 49 è richiamato a Roma per intercessione di Agrippina, che, sposato Claudio dopo la morte di Messalina, gli affida l’educazione del figlio Domizio Enobarbo, il futuro Nerone. Si affermano il suo prestigio e il suo potere a corte. È rieletto pretore, sempre per i buoni uffici di Agrippina che ne ha ottenuto il ritorno per attirarsi i favori del popolo che lo stima e giovarsi del suo aiuto per conseguire il principato.

Nel 50 scrive il De brevitate vitae. Nel 54, morto Claudio (avvelenato probabilmente dalla stessa Agrippina) e salito al trono Nerone, forse per ingraziarsi quest’ultimo, scrive l’Apokolokyntosis (tale è il titolo tramandatoci da Cassio Dione, che i copisti hanno reso con Divi Claudi apotheosis per satyram, o, più semplicemente, con Ludus de morte Cl.), in cui celebra ironicamente e con uno sfogo vendicativo a dir poco ingeneroso, la «zucchificazione», o «trasformazione in dio in forma di zucca» dell’imperatore che lo ha condannato all’esilio e che prima ha esaltato, oltre che nella Consolatio ad Polybium, in un discorso scritto per Nerone da pronunciarsi in Senato. Con l’ascesa al trono di Nerone la sua influenza a corte cresce ancora di più, al punto da fare di lui quasi l’arbitro e il moderatore della politica imperiale, l’astuto intermediario fra l’imperatore, sempre più tirannico, e il Senato, sempre più servile. Ispiratore di saggi consigli e provvedimenti (fra cui uno a favore degli schiavi più un progetto di riforma fiscale), accondiscende tuttavia a certi atteggiamenti e misfatti di Nerone, per evitare, dice, mali peggiori. Così, ad esempio, giustifica l’assassinio di Britannico, figlio di Claudio e Messalina, ordinato dall’imperatore. Accumula immense ricchezze, con possedimenti disseminati un po’ dovunque, per un valore di trecento milioni di sesterzi, divenendo oggetto di dure critiche, tanto più perché il suo tenore di vita contrasta con i suoi insegnamenti, e viene addirittura trascinato in tribunale da un certo Publio Suillio, che lo accusa di guadagni illeciti, di traffici, e persino di essere un usuraio e cacciatore di testamenti. Comunque vince la causa e Suillio, accusato a sua volta di peculato, è condannato all’esilio.

Nel 55 scrive il De constantia sapientis e il De clementia, nel 58 il De vita beata.

La sua autorità va intanto indebolendosi, mentre Nerone comincia a diventare insofferente di lui, il quale non solo non riesce a trattenergli la mano dal matricidio, ma finisce col giustificarlo in nome della ragion di Stato, scrivendo probabilmente egli stesso la lettera indirizzata da Nerone al Senato per rendere conto del misfatto, nella quale si dice che Agrippina s’è uccisa di sua mano per il fallimento di una sua cospirazione contro Nerone. Nella totale e passiva accettazione solo lo stoico Trasea Peto manifesta apertamente il suo dissenso.

Nel 61 scrive il De tranquillitate animi.

Con la morte di Burro, prefetto del pretorio e consigliere (insieme a lui) di Nerone, e con l’elezione di Tigellino a quella carica, la sua situazione a corte si fa sempre più insostenibile. Sfuggito a un tentativo di avvelenamento da parte di Nerone, si ritira a vita privata, dopo avere offerto all’impera- tore tutti i suoi beni. Tacito, in Ann., XIV, 53, descrive la scena di lui che si presenta a Nerone e gli dice: «Tu m’hai colmato di onori e ricchezze al di là d’ogni misura, e ciò mi ha reso oggetto d’immensa invidia; è ora che io mi ritiri a una condizione di vita più modesta, in cui la mia anima possa dedicarsi a se stessa e non alla amministrazione di tanti beni». Si rifugia in una sua villa in Campania, conducendo una vita da anacoreta, confortato dall’affetto della seconda moglie, Paolina, e dell’amico Lucilio, a cui indirizza il suo epistolario (che concluderà nel 65), le Epistulae morales, il suo capolavoro, contenente 124 lettere in 20 libri.

Scrive intanto anche il De otio e conclude il De beneficiis. Nel 63 scrive le Naturales quaestiones, nel 64 il De providentia.

Coinvolto nella congiura di Calpurnio Pisone contro Nerone, insieme ad altri noti personaggi, senatori, consoli, filosofi e poeti, per ordine dell’imperatore si toglie la vita svenandosi (65). Va incontro alla morte con decisione e grande serenità, così come aveva insegnato, ma non senza una certa posa teatrale, che era un po’ una caratteristica della sua natura.

Oltre alle opere citate (le cui date di composizione sono approssimative) Seneca scrisse pure 9 tragedie, che ci sono pervenute anch’esse in un ordine non cronologico e che non sappiamo neppure se appartengano al periodo giovanile o a quello della maturità, benché alcuni propendano per quest’ultimo, collocandole fra il 59 e il 62. Esse sono, nell’ordine riportato dal codice Etrusco-Laurenziano, le seguenti: Hercules furens, Troades, Phoenissae, Medea, Phaedra, Oedipus, Agamemnon, Thyestes, Hercules Oetaeus. Ci è pervenuta inoltre l’Octavia, una pretesta (l’unica di tutta la letteratura latina e per questo importante), inclusa nell’elenco come decima tragedia, che però è ritenuta spuria, perché vi è descritto il suicidio di Nerone, profetizzato dall’ombra vendicatrice di Agrippina, con particolari troppo vicini alla realtà. Ci sono giunti, ancora, circa 70 epigrammi, di cui soltanto tre portano il nome di Seneca, contenenti notizie biografiche, dell’esilio, invocazioni e celebrazioni. Le opere perdute sono:

De situ et sacris Aegyptiorum, De situ Indiae, De forma mundi (in cui è affermata la sfericità del mondo), De piscium natura, De lapidum natura, De motu terrarum, Exhortationes, il trattato De officiis, il dialogo De superstitione, De matrimonio, De immatura morte, De remediis fortuitorum ad Gallionem, Quomodo amicitia continenda sit, Libri moralis philosophiae, Epistulae ad Novatum, De vita patris.

È singolare come nel Medioevo il nome “Seneca” lo si facesse derivare da se necans = «colui che si uccide», e come in molti dialetti (v. Bruno Migliorini, Dal nome proprio al nome comune, Ginevra 1917) la parola abbia il significato di «persona pallida e magra».

BIBLIOGRAFIA

Manoscritti

Dialogorum libri: AMBROSIANUS C. 90 inf. (A), XI sec.

De clementia e De beneficiis: NAZARIANUS (Vat. Pal. 1547), VIII-IX sec.

Epistulae morales ad Lucilium: LAURENTIANUS 76, 40 (IX-X sec.); MARCIANUS VENETUS CCLXX arm. 22,4 (IX-X sec.); QUIRINIANUS di Brescia (B. II, 6).

Naturales quaestiones: PARISINUS LAT 8624 (XII-XIII sec.); MONTEPESSULANUS 116 (XIII sec.).

Tragedie: ETRUSCUS (Laurentianus 37, 13), IX-X sec.

Edizioni critiche dei Dialoghi

Dialogorum libri XII: M.G. GERTZ, Hauniae 1886.

Dialogorum libri XII: E. HERMES, Lipsia 1905.

Dialogues: R. WALTZ, A. BOURGERY, Paris 1923.

Dialogorum libri XII, R.D. REYNOLDS, Oxford 1977.

E inoltre l’edizione italiana dell’Istituto Editoriale Italiano, Milano, a cura di N. Sacerdoti, il cui testo latino è riprodotto nella presente edizione.

Edizioni delle Epistulae morales

Editio Mentelina, Strasbourg 1475, prima edizione a stampa.

F. HAASE, Leipzig 1852 (edizione teubneriana).

O. HENSE, Leipzig 1898, 1914.

A. BELTRAMI, Roma 1916, 1931.

F. PRECHAC e H. NOBLOT (Belles Let-tres), Paris 1945-1964.

L.D. REYNOLDS, Oxford 1965.

Edizioni delle altre opere

Tragedie: F. LEO, Berlino 1878-79; U. MORICCA, Torino 1917-25; R. PEIPER – G. RICHTER, Lipsia 1921; L. HERRMANN, Paris 1924-26; G.C. GIARDINA, 2 voll., Bologna 1966; O. ZWIERLEIN, Oxford 1986.

Epigrammi: A. BAEHRENS, in PLM, IV, Lipsia 1881; C. PRATO, Roma 1964.

De beneficiis e De clementia: C. HOSIUS, Lipsia 1900.

Naturales quaestiones: A. GERCKE, Lipsia 1907; P. OLTRAMARE, Paris 1929.

Epistulae morales ad Lucilium: O. MENSE, Lipsia 1914; A. BELTRAMI, Roma 1931; F. PRECHAC, Paris 1945; R.D. REYNOLDS, Oxford 1965.

Apocolocyntosis: A. ROSTAGNI, Milano 1948.

Studi

L. F. GELPKE, De Senecae vita et mori-bus, Bern 1848; F. BOHM, Seneca und sein Wert auch für unsere Zeit, Berlin 1856; BROLÉN, De philosophia Senecae, Uppsala 1880; P. HOCHART, Études sur la vie de Sénèque, Paris 1885; A. DIEPENBROCK, L. Annaei Senecae philosophi vita, Amsterdam 1888; A. GERCKE, Seneca-Studien, in «Jahrbuch für Philologie», Supplementb., 1895; C. PASCAL, Seneca, Messina 1906; R. WALTZ, Vie de Sénèque, Paris 1909 (opera tuttora fondamentale); D. BASSI, Seneca morale, Firenze 1914; C. MARCHESI, Seneca, Messina 1ª ediz. 1920, 2ª ediz. 1934 (anch’essa fondamentale); F. HOLLAND, Seneca, London 1920; P. FAIDER, Études sur Sénèque, Gand 1921; L. CASTIGLIONI, Studi intorno a Seneca prosatore e filosofo, in «Rivista di fil. class.», 1924, pp. 350 sgg.; A. BAILLY, La vie et les pensées de Sénèque, Paris 1929; H. W. KAMP, A critical biography of L.A.S., Illinois Stud. 1931; M. GENTILE, I fondamenti metafisici della morale di Seneca, Milano 1932; U. KNOCHE, Der Philosoph Seneca, Frankfurt 1933; B. AXELSON, Senecastudien, Lund 1933 e 1939; A. BOURGERY, Sénèque le Philosophe, Paris 1938; F. DE PAOLA, Philosophia tarsensis in Senecae scriptis, Firenze 1940; F. MARTINAZZOLI, Seneca, Firenze 1945 (pone l’accento sul sostanziale immanentismo di Seneca); P. GRIMAL, Sénèque, Paris 1948; F. GIANCOTTI, Il posto della biografia nella problematica senechiana, in «Rendiconti dell’Accademia dei Lincei», 1953-55; V. CAPOCCI, Chi era Seneca, Torino 1955; I. LANA, Lucio Anneo Seneca, Torino 1955; F. GIANCOTTI, Cronologia dei «Dialoghi» di Seneca, Torino 1957; E. PARATORE, voce Seneca, in «Enciclopedia dello spettacolo», Firenze 1961; ID., voce Seneca, in «Enciclopedia Dantesca» V, pp. 156-159; ID., La tensione drammatica nell’opera di Seneca, in «Actas del Congreso internacional de Filosofía en commemoración de Seneca», Cordoba 1965, pp. 207-28; G. SCARPAT, La lettera 65 di Seneca, Brescia 1965; E. PARATORE, Seneca e Lucano (nel diciannovesimo centenario della morte), Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1966; ID., Indizi di natura sociale nel teatro latino, in «Atti III Congresso intern. st. dr. ant.», Siracusa 1969, pp. 37-58; ID., La letteratura latina dell’età imperiale, Firenze-Milano 1969; G.C. GIARDINA, Caratteri formali del teatro di Seneca, Bologna 1972; A. TRAINA, Lo stile «drammatico» del filosofo Seneca, Bologna 1974; M.T. GRIFFIN, Seneca. A Philosopher in Politics, Oxford 1976; G. SCARPAT, Il pensiero religioso di Seneca, Brescia 1977; A. SETAIOLI, Seneca e i Greci, Bologna 1988; M. ROZELHAR, Seneca. Eine Gesamtdarstellung, Amsterdam 1976; A. GIL ARROYO, Die Chorlieder in Senecas Tragödien. Eine Untersuchung zu Senecas Philosophie und Chor themen, Diss. Köln 1979; E. PARATORE, Seneca autore di teatro, in «Dioniso, Seneca e il teatro», 1985, pp. 29-46; ID., Séneca entre Us-catescu y yo, in Cultura y existencia hu-mana, Madrid 1985, pp. 1275-80; V. SÖRENSEN, Seneca, Roma 1988.

Traduzioni italiane

Dialoghi: De ira: A. BARRIERA, Torino 1915; Dialogorum libri IX, X (De tranquillitate animi – De brevitate vitae): L. CASTIGLIONI, Augustae Taurinorum 1946; Dialogorum libri III, IV; V (De Ira): G. VIANSINO, Augustae Taurinorum 1963; Dialogorum libri VI, XI, XII (Consolationes): G. VIANSINO, Augustae Taurinorum 1963; Dialoghi, a cura di G. MANCA, Torino 2006; La consolazione a Marcia: introduzione, testo, traduzione e note a cura di A. TRAGLIA, Roma 1965; De providentia – De constantia sapientis, testo, commento e traduzione a cura di G. VIANSINO, Roma 1968; La Provvidenza: introduzione, testo, traduzione e note a cura di E. ANDREONI, Roma 1971; Dell’Ira Libri III: introduzione, testo, traduzione e note a cura di A. BORTONE POLI, Roma 1977; R. LAURENTI, 2 voll. Roma-Bari 1978; A. MARASTONI, Milano 1979; A. TRAINA (Le consolazioni), Milano 1987; R. DEL RE, Bologna 1989; N. MARZIANO, voll. 3, Milano 1990; N. SACERDOTI, Milano 1990.

Lettere a Lucilio: B. GIULIANO, Bologna 1953-1962; U. BOELLA, Torino 1969; E. LEVI, Milano 1957; G. MONTI; Milano 1985; C. BARONE (con un saggio di L. Canfora), Milano 1989; M. GREMIGNAI, Sant’Arcangelo di Romagna 2008.

Apocolocintosi: R. MUGELLESI, Milano 1996.

Medea, Fedra: G.C. BIONDI, Milano 1989.

Questioni naturali: D. VOTTERO, Torino 1989; R. MUGELLESI, Milano 2004.

Come vivere a lungo e La provvidenza: M. Scaffidi Abbate, Roma, Newton Compton, 1993.

Guida alla saggezza: M. SCAFFIDI ABBATE, Roma, Newton Compton, 1995.

Tutti gli scritti in prosa: dialoghi, trattati e lettere: a cura di GIOVANNI REALE, con la coll. di ALDO MARASTONI e MONICA NATALI, Milano, Rusconi, 1994.

Dialoghi morali: trad. di GAVINO MANCA; intr. e note di CARLO CARENA; testo latino a fronte; Torino, Einaudi, 1995.

L’ozio e La serenità: M. SCAFFIDI ABBATE, Roma, Newton Compton, 19994.

Dialoghi: a cura di PAOLA RAMONDETTI, Torino, Unione tipografico-editrice torinese, 1999.

Tutte le opere: dialoghi, trattati, lettere e opere in poesia: a cura di GIOVANNI REALE, con la coll. di ALDO MARASTONI, MONICA NATALI e ILARIA RANELLI, Milano, Bompiani, 2000.

L’arte di essere felici e vivere a lungo: M. SCAFFIDI ABBATE, Roma, Newton Compton, 2006.

Tragedie

Edizioni

A cura di R. PEIPER e G. RICHTER, Leipzig 1ª ediz. 1867, 2ª ediz. 1937; a cura di F. LEO, Berlin 1878-79 (fondamentale, con un complesso di studi introduttivi e accessori): da essa dipende quella particolare di G. RICHTER, Leipzig 1902 e 1921. Indi: a cura di L. HERMANN, Paris 1924-26; a cura di U. MORICCA, Torino 1ª ediz. 1917-23, 2ª ediz. 1947 (con introduzioni alle singole tragedie, in cui si dibattono i problemi delle fonti); a cura di G. VIANSINO, Torino 1965; a cura di E. LEFÈVRE, Darmstadt 1972; a cura di O. ZWIERLEIN, Oxford 1986; Tragedie: G.C. GIARDINA, R. CUCCIOLI MELLONI, Torino 1987; E. PARATORE, Roma, Newton Compton, 2006.

Opere concernenti tutto il teatro

I fondamenti della critica sul teatro di Seneca in LESSING, Samtliche Schriften ed. Lachmann Muncker, 3ª ediz., vol. VI, pp. 167 sgg. Indi: G. BOISSIER, Les tragédies de Sénèque ont-elles été représentées?, Paris 1861; G. RICHTER, De Senecae tragoediarum auctore, Bonn 1862 (fissa in breve tutta la problematica essenziale sul teatro di Seneca); F. JONAS, De ordine librorum Senecae philosophi, Berlin 1870 (sulla cronologia delle tragedie); C. E. SANDSTROM, De L. A. Senecae tragoediis, Uppsala 1872; A. PAIS, Il teatro di L.A. Seneca, Torino 1890; C. LINDSKOG, Studien zur antiken Drama II, Lund 1897; F. LEO, Die Komposition der Chorlieder Senecas, in «Rheinisches Museum», 1897; P. SCHAEFER, De philosophiae Annaeanae in Senecae tragoediis vestigiis, Jena 1909; F. FRENZEL, Die Prologe der Tragöd. Senecas, Leipzig 1914; Index verborum delle tragedie di Seneca, a cura di W. A. OLDFATHER, A. S. PEASE e H. V. CANTER, Illinois Stud., voll. 3, 1918; K. MÜNSCHER, Senecas Werke, in «Philologus», Sup-plementb., 1922, pp. 84 sgg.; J. KEUNE, De L. A. Senecae arte tragica, Göttingen 1923; L. HERRMANN, Le théatre de Sénèque, Paris 1924 (con ricca bibliografia); J. HIPPLER, Annaeanae quaestiones scaenicae, Darmstadt 1924; H. V. CANTER, Rhetorical elements in the trag. of Seneca, lllinois Stud., 1925; HERZOG, Datierung der Trag. des Senecas, in «Rheinisches Museum», 1928, pp. 51 sgg. (faticosamente cervellotico); S. LANDMAN, Seneca quatenus in mulierum personis effingendis ab exemplaribus graecis recesserit, in «Eos», 1928, p. 492; J. SMEREKA, De Senecae tragoediis dinosis colore fucatis, in «Eos», 1929, pp. 615 sgg.; W. MARX, Funktion und Form der Chorlieder in Senecas Trag., Heidelberg 1931; E. CESAREO, Le tragedie di Seneca, Palermo 1932; W. H. FRIEDRICH, Untersuchungen zu Senecas dramat. Technik, Leipzig 1933; E. HANSEN, Die Stellung der Affektrede in den Tragödien des Senecas, Berlin 1934; W. SCHULZE, Untersuchungen zur Eigenart der Tragödien Sene-cas, Halle 1937; M. DAL MONTECASONI, Coro e azione nelle tragedie di Seneca, Napoli 1937; L. STRZELECKI, De Senecae trimetro iam-bico, Krakow 1938; M. HADAS, The Roman stamp of Seneca’s tragedies, «Amer. Journ. of. Philol.», 1939, pp. 220 sgg.; N. T. PRATT jr., Dramatic suspense in Seneca, Princeton Univ. 1939; C. W. MENDELL, Our Seneca, New Haven 1941 (il miglior bilancio del particolare influsso di Seneca sulla cultura anglosassone); B. M. MARTI, Seneca’s Tragedies, in «Transac. of Amer. Philol. Assoc.», 1945, pp. 216 sgg.; G. CARLSSON, Seneca’s Tragedies, in «Classica et Mediaevalia», 1948, pp. 39 sgg.; L. STRZELECKI, De polymetris Senecae canticis, in «Eos», 1951, pp. 93 sgg.; K. H. TRABERT, Studien zur Darstellung des Pathologischen in den Tragödien des Senecas, Erlangen 1953; F. GIANCOTTI, Saggio sulle tragedie di Seneca, Città di Castello 1953 (asciutto tentativo di rivendicare solo la coerenza del contenuto morale nelle tragedie di Seneca, sussumendole sotto la categoria dell’oratoria; il che non ha evitato che, contro le sue intenzioni, P. GRIMAL, recensendo l’opera in «Revue des ét. anc.» 1955, pp. 211-13, ne traesse ispirazione per proporre una nuova insostenibile cronologia delle tragedie); J. ANDRIEU, Le dialogue antique, Paris 1954; B. GENTILI, Il coro nel teatro romano, in «Enciclopedia dello Spettacolo», vol. III, s.v.; M. BIEBER, Wurden die Tragoe dien des Seneca in Rom aufgeführt?, in «Römische Mitteilungen», 1953-54, pp. 100 sgg. (sulla base di dati archeologici e dell’arte figurativa sostiene che le tragedie di Seneca erano destinate alla scena); E. PARATORE, Storia del teatro latino, Milano 1957; ID., Originalità del teatro di Seneca, in «Dioniso» 1957, pp. 53-74; K. ANLIKER, Prologe und Akteinteilung in Senecas Tragödien, in «Noctes Romanae», 1960, pp. 98 sgg.; G. RUNCHINA, Tecnica drammatica e retorica nelle Tragedie di Seneca, in «Ann. Fac. Lett. Cagliari», 1960, pp. 103 sgg.; A. CATTIN, Les thèmes lyriques dans les tragédies de Sénèque, Neuchâtel 1963; O. REGENBOGEN, Schmerz und Tod in den Tragödien Senecas, Darmstadt 1963; E. PARATORE, Il teatro latino nei suoi rapporti col pubblico antico e nei suoi riflessi sulla spiritualità moderna, in «Dioniso», 1965, pp. 57-81; G. PETRONE, Paesaggio dei morti e paesaggio del male: il modello dell’oltretomba virgiliano nelle tragedie di Seneca, ibid., pp. 131-143; O. ZWIERLEIN, Die Rezitationsdramen Senecas, mit einem kritisch-exegetischen Anhang, Meisenheim am Glan 1966, pp. 72-87; E. PARATORE, El teatro y sus sombras, in «Revista de estudios politicos», 1969, pp. 133-37; B. SEIDENSTICKER, Die Gesprächsverdichtung in den Tragödien Senecas, Heidelberg 1969; G. MAZZOLI, Seneca e la poesia, Milano 1970; E. PARATORE, Il teatro latino nel mondo contemporaneo, in «Dioniso», 1971, pp. 511-31; I. OPELT, Senecas Konzeption des Tragischen, Darmstadt 1972; E. PARATORE, Il teatro latino, in Introduzione allo studio della cultura classica, Milano 1972, pp. 259-61; W. L. LIEBERMANN, Studien zu Senecas Tragödien, Meisenheim am Glan 1974; S. FORTHEY-J. GLUCKER, Actus tragicus: Seneca on the Stage, in «Latomus», 1975, pp. 699-715; J. A. SEGURADO E CAMPOS, Sur la typologie des personnages dans les tragédies de Sénèque, in «Nerone», 1977, pp. 224 sgg.; R. J. TARRANT, Senecan Drama and its Antecedents, in «Harvard St.», 1978, pp. 213 sgg.; A. TRAINA, Due note a Seneca tragico, in «Maia», 1979, pp. 273 sgg.; G. ARICÒ, Seneca e la tragedia latina arcaica, in «Dioniso», 1981, pp. 339-356; A. DE ROSALIA, Echi acciani in Seneca tragico, in «Atti dell’VIII Congresso internazionale di studi sul dramma antico: Seneca e il teatro. Siracusa, settembre 1981», «Dioniso», 1981, pp. 221 sgg.; D. LANZA, Riflessioni sulla testualità drammatica di Seneca, in «Dioniso», 1981, pp. 463-76; J. M. ANDRÉ, La présence de Virgile chez Sénèque, in «Helmantica», 1982, pp. 219-33; L. BRAUN, Sind Senecas Tragödien Bühnenstücke oder Rezitationsdrame?, in «Res publ. litt.», 1982, pp. 43-52; N. T. PRATT, Seneca’s Drama, Chapel Hill and London 1983; S. TIMPANARO, La tipologia delle citazioni poetiche in Seneca: alcune considerazioni, in «Giorn. it. filol.», 1984, pp. 163-82; D. e E. HENRY, The mask of Power. Seneca’s Tragedies and Imperial Rome, Wiltshire-Chicago 1985; O. HILTBRUNNER, Seneca als Tragödiendichter in der Forschung von 1965 bis 1975, in «Auf. und Nied. der röm.Welt» II, Berlin-New York 1985, pp. 969 sgg.; J. DINGEL, Senecas Tragödien: Vorbilder und poetische Aspekte, ibid., pp. 1052 sgg.; D. F. SUTTON, Seneca on the Stage, Leiden 1986; O. ZWIERLEIN, Kritischer Kommentar zu den Tragödien Senecas, Mainz 1986; G. MAZZOLI, Funzioni e strategie dei cori nella tragedia senecana, in «Quaderni di cultura e di tradizione classica», «Atti del I seminario di studi sulla tragedia romana (Palermo 26-28 ottobre 1987)», pp. 99-112; G. RAINA, La fuga di notizie nella tragedia di Seneca, in «Atti sem. st. della tragedia romana», Palermo 1988-89; V. SALVIONI, Metafore ‘burocratiche’ nel teatro di Seneca?, ibid.; M. TREBBI, La struttura dei prologhi senecani, ibid.; R. TROMBINA, Il nostos nel teatro di Seneca, ibid.; P. VENINI, Seneca ed Euripide, ibid.; G. DIHLE, Seneca und die Aufführungpraxis der römischen Tragödie, in «Ant. und Abendl.», 1989, pp. 162-171.

Sulla fortuna di Seneca in età moderna: J. CUNLIFFE, The influence of Seneca on Elizabethan tragedy, London 1893; J. ENGEL, Die Spuren Senecas in Shakespeares Dramen, in «Preussische Jahrbücher», 1903, pp. 60 sgg.; E. PARATORE, Nuove prospettive sull’influsso del teatro classico nel ’500, Accademia Naz. dei Lincei, Roma 1970; ID., Seneca tragico e la poesia tragica francese del siècle d’or, in «Studi urbinati», 1973, pp. 32-60; E. LEFÈVRE, Der Einfluss Senecas auf das europäische Drama, Darmstadt 1978; E. PARATORE, L’influsso dei classici, e particolarmente di Seneca, sul teatro tragico latino del Tre e Quattrocento, in La rinascita della tragedia nell’Italia dell’Umanesimo, Viterbo 1980, pp. 21-45.

Note

DE CONSTANTIA SAPIENTIS

1 È Marco Porcio Catone, detto l’Uticense (95-46 a.C.), morto suicida per non sottostare alla dittatura di Cesare. Esaltato da tutti come uno dei più grandi esempi di libertà, oltre che di integrità morale, è citato da Seneca anche nel De providentia (II, 9-12) e in altre opere. Vatinio, uomo dappoco e corrotto, rivestì le più alte cariche pubbliche (fu questore, tribuno della plebe, pretore e console). Cicerone scrisse contro di lui una celebre orazione, in cui, fra l’altro, lo definisce nimium vehemens feroxque natura… tamquam serpens e latibulis, oculis eminentibus, inflato collo, tumidis cervicibus (In Vat., 2), e Catullo, a dimostrare la bassezza dei tempi, dice (52, 3-4): per consulatum perierat Vatinius, e conclude: Quid est, Catulle, quid moraris emori? («Che aspetti dunque a morire, o Catullo?»). Degli episodi riguardanti gl’insulti mossi a Catone dalla folla non si trova notizia presso altri scrittori.

2 Publio Clodio Pulcro, un altro uomo corrotto e arruffapopolo: eletto tribuno, condannò Cicerone all’esilio. Fu ucciso nel 52 a.C. da Milone (che sarà difeso da Cicerone).

3 I tre uomini a cui Seneca si riferisce, «che nemmeno il possesso del mondo intero poteva saziare», sono Cesare, Pompeo e Crasso, che, costituito il primo triumvirato, nel 60 a.C., si spartirono i territori della repubblica.

4 Seneca non avrebbe potuto trovare un paragone più calzante («come certe pietre, come l’acciaio», ecc.) per mettere in risalto la fermezza e la resistenza del saggio di fronte alle offese, di qualunque natura esse siano.

5 Lo stolto re a cui qui si allude è Serse I, re dei Persiani (519-465 a.C.), che, dopo avere conquistato l’Egitto e assalito la Grecia varcando l’Ellesponto su un ponte di barche, fu sconfitto prima a Salamina (480) e poi a Platea (479).

6 Demetrio, re della Macedonia, soprannominato Poliorcete (che in greco significa «conquistatore di città») espugnò Megara nel 307 a.C. Stilpone di Megara fu il fondatore di una scuola filosofica (detta scuola megarica) precorritrice di quella stoica per quanto riguarda l’impassibilità.

7 Questo di Stilpone, l’unico uomo sereno e in pace in mezzo al fragore e alle devastazioni della guerra, è uno dei passi lirici non infrequenti in Seneca.

8 Alessandro Magno occupò Babilonia nel 331 a.C. Cartagine (Africa) e Numanzia (Spagna) furono espugnate e distrutte l’una nel 146, l’altra nel 133 a.C., da P. Cornelio Scipione l’Africano Minore. Quanto al Campidoglio, Seneca allude all’assalto portato alla rocca dai Galli nel 387 a.C.

9 La pretesa listata di porpora era la toga che indossavano i magistrati e i sacerdoti, i fasci simboleggiavano l’autorità dello Stato. Nel Campo Marzio, posto sulla riva del Tevere, i Romani si esercitavano alle armi.

10 Per Seneca la punizione doveva avere sempre una funzione educativa.

11 Attalo, re di Pergamo, era famoso per le sue strabilianti ricchezze. Lo ricorda, fra gli altri, Orazio, laddove dice che l’agricoltore nemmeno attalicis condicionibus (cioè neppure se gli si offrissero tutte le ricchezze di Attalo) oserebbe sfidare i pericoli del mare (Odi, I, 1, 11-14). Qui Attalo è ricordato per la sua arroganza, anch’essa proverbiale.

12 I Parti, i Medi e i Battriani erano dei popoli fieri che abitavano ai confini orientali dell’Impero.

13 Ovidio Nasone (43 a.C.-17 d.C.) è il famoso poeta, autore, fra altre opere, delle Metamorfosi.

14 Cherea era comandante dei pretoriani e capeggiò la congiura contro Caligola, colpendolo per primo. Fu condannato a morte dall’imperatore Claudio.

15 Antistene fu un filosofo ateniese (IV-III a.C.). Discepolo di Socrate, fondò la scuola cinica. Il monte Ida, in Asia Minore, era sede del culto di Cibele, la Gran Madre degli dèi.

DALLE EPISTULAE MORALES

Lucio Anneo Seneca

La felicità

I. Gallione, fratello mio, tutti aspiriamo alla felicità, ma, quanto a conoscerne la via, brancolia mo come nelle tenebre. è infatti così difficile raggiungerla che più ci affanniamo a cercarla, più ce ne allontaniamo, se prendiamo una strada sbagliata; e se questa, poi, conduce addirittura in una direzione contraria, la velocità con cui procediamo rende sempre più distante la nostra mèta. Perciò dobbiamo avere innanzitutto ben chiaro quel che vogliamo, dopodiché cercheremo la via per arrivarci, e lungo il viaggio stesso, se sarà quello giusto, dovremo misurare giorno per giorno la strada che ci lasciamo indietro e quanto si fa più vicino quel traguardo a cui il nostro impulso naturale ci porta. è certo che, sino a quando vagheremo a caso, non seguendo una guida ma ascoltando lo strepito delle voci discordi che ci spingono in direzioni diverse, la nostra vita, già breve di per sé, si consumerà in questo andare errabondo, anche se c’impegniamo giorno e notte, animati dalle migliori intenzioni. Fissiamo dunque bene la mèta e scrutiamo attentamente il modo per poterla raggiungere, con l’aiuto di un esperto che abbia già intrapreso ed esplorato il cammino che stiamo per affrontare, perché questo non ha nulla a che vedere con tutti gli altri, in cui sentieri precisi e le indicazioni forniteci dagli abitanti dei luoghi che attraversiamo c’impediscono di sbagliare: qui sono proprio le strade più battute e più frequentate a trarci in errore. Non c’è dunque nulla di peggio che seguire, come fanno le pecore, il gregge di coloro che ci precedono, perché essi ci portano non dove dobbiamo arrivare, ma dove vanno tutti. Questa è la prima cosa da evitare. Niente c’invischia di più in mali peggiori che l’adeguarci al costume del volgo, ritenendo ottimo ciò che approva la maggioranza, e il copiare l’esempio dei molti, vivendo non secondo ragione ma secondo la corrente. Da qui questo enorme affollarsi di persone che rovinano le une sulle altre. Come in una grande massa di uomini, in cui ciascuno, spingendo, cade e fa cadere (nessuno infatti cade senza tirarsi addosso almeno un altro, e i primi nuocciono a quelli che gli vanno dietro), così avviene in tutti i campi della vita: nessuno sbaglia a suo esclusivo uso e consumo, ma ciascuno di noi è artefice e responsabile anche degli errori degli altri. è pericoloso appoggiarsi a quelli che ci camminano davanti, ma noi, come preferiamo affidarci alle opinioni altrui piuttosto che giudicare con la nostra testa, così anche intorno alla vita non formuliamo mai dei giudizi personali, sicché l’errore, passando di mano in mano, c’incalza, ci travolge e ci butta giù, con nostra grande rovina.

Sono gli esempi degli altri che ci guastano: solo se sapremo tenerci lontani dalla moltitudine potremo salvarci. Il volgo, invece, a dispetto della ragione, s’irrigidisce in una ostinata difesa dei propri errori, per cui accade come nei comizi, nei quali, appena il favore popolare, volubile com’è, ha mutato direzione, quelle stesse persone che li hanno votati si meravigliano che siano stati eletti «quei» pretori: così noi indifferentemente, approviamo o rigettiamo le medesime cose; questo è il risultato di ogni giudizio, quando lo regoliamo sull’opinione degli altri.

II. Ma di fronte alla felicità non possiamo comportarci come nelle votazioni, accodandoci alla maggioranza, perché questa proprio per il fatto di essere la maggioranza è peggiore.

I nostri rapporti con le vicende umane non sono infatti così buoni da poterci indurre a ritenere che il meglio stia dalla parte dei più, perché la folla testimonia esattamente il contrario, che cioè il peggio, per l’appunto, sta lì. Sforziamoci dunque di vedere e di seguire non i comportamenti più comuni ma cosa sia meglio fare, non ciò che è approvato dal 2

Lucio Anneo Seneca

La felicità

volgo, pessimo interprete della verità, ma ciò che possa condurci alla conquista e al possesso di una durevole felicità.

Per volgo intendo sia chi indossa il mantello sia chi porta la corona: io non bado all’apparenza delle vesti che coprono i corpi, non giudico un uomo con gli occhi, dei quali non mi fido, c’è in me una luce migliore e più sicura con cui distinguo il vero dal falso: è l’anima che deve trovare quel bene che solum è suo. Se mai avrà un momento di respiro per ritrarsi un poco in se stessa, oh come, allora, torcendosi con grande strazio di sé, confesserà la verità e sarà indotta ad esclamare:

«Vorrei non avere mai fatto tutto quello che ho fatto sinora, e quando penso a ciò che ho detto provo invidia per i muti, ed ogni mio desiderio lo considero una maledizione dei miei nemici. Buon Dio, quanto mi sarebbe stato più sopportabile ciò che temevo, di fronte a ciò che ho tanto desiderato! Sono stata nemica di mo lti, e dopo l’odio che ho provato mi sono riappacificata con loro (se mai può esservi tregua fra malvagi), ma non sono ancora amica di me stessa. Mi sono adoperata in tutti i modi per tirarmi fuori dalla folla e farmi notare per qualche mia qualità, e che altro ho ottenuto se non espormi alle frecciate e ai morsi dei maligni? Li vedi questi che lodano l’eloquenza, inseguono la ricchezza, accarezzano i favori ed esaltano il potere? Tutti costoro o sono nemici o possono diventarlo, che è poi la stessa cosa. Tanto folta è la schiera degli adulatori quanto lo è quella degl’invidiosi. Perché non cercare un bene da potersi intimamente sentire, piuttosto che uno da mettere in vetrina? Tutte queste cose che ci stanno intorno, che ci avvincono e che ci mostriamo a dito gli uni agli altri con ammirato stupore, brillano esternamente, ma dentro non sono che miserie».

III. Cerchiamo dunque un bene non apparente ma vero, che sia costante e bello nella sua intima essenza: è questo che dobbiamo sprigionare e portare alla luce. Non è lontano, lo troveremo, ci basta solo sapere dove tendere la mano. E

invece continuiamo a brancolare nel buio, senz’accorgerci di ciò che pur ci sta vicino e inciampando proprio in quello che desideriamo. Ma per non trascinarti in un tortuoso giro di parole, tralascerò le opinioni degli altri (che sarebbe troppo lungo elencare e discutere) e ti esporrò la nostra: dico «nostra»

non perché io mi senta legato ad alcuno dei grandi stoici, giacché anch’io ho diritto ad un mio parere personale, ma perché di loro uno lo seguirò, un altro lo inviterò a puntualizzare il suo pensiero, e alla fine, magari, interpellato, non respingerò nessuna delle idee di coloro che hanno parlato prima di me, e dirò: «In più io la penso così». Intanto, come tutti gli stoici, io seguo la natura: è segno di saggezza non allontanarsene ma conformarsi alle sue leggi ed al suo esempio. Felice è dunque quella vita che si accorda con la sua propria natura, il che è possibile solo se la mente, in primo luogo, è sana, ma sana sempre, in ogni momento, poi se è forte ed energica, decisamente paziente, capace di affrontare qualsiasi situazione, interessata al corpo e a quanto lo riguarda ma senza ansie e preoccupazioni, amante di tutto ciò che adorna la vita ma con distacco, disposta a serv irsi dei doni della fortuna ma senza farsene schiava. Comprendi bene – anche se non aggiungo altro – che una volta eliminate tutte le cause di irritazione e di paura, ne conseguono una calma interiore ed una libertà ininterrotte: infatti ai piaceri e agli allettamenti, che sono fragili e di breve durata, e che ci nuocciono col loro solo profumo, subentra una gioia incommensurabile, salda e costante; e poi la pace e l’armonia dell’anima, l’elevatezza e la bontà: la cattiveria è sempre frutto di una malattia.

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Lucio Anneo Seneca

La felicità

IV. Della felicità si possono dare anche altre definizioni, giacché uno stesso concetto può essere espresso con parole diverse. Come un esercito che si schieri ora in larghe file, ora in uno spazio ristretto, oppure a semicerchio o frontalmente, ma comunque si disponga non cambiano la sua forza e la sua volontà di combattere per la medesima causa, così la definizione della felicità può essere ora ampia e particolareggiata, ora breve e concisa. Sicché possiamo dire, per esempio, che essa «consiste nel disprezzare i doni della fortuna e nel compiacersi della virtù», o che «è una forza invincibile dell’animo, esperta della vita, serena nell’agire, piena di umanità e di premure per gli altri», senza con ciò mutarne il concetto o la sostanza. E possiamo ancora d ire che felice è colui per il quale non esistono il bene ed il male ma soltanto uomini buoni e uomini cattivi, che segue solo ciò che è onesto e si compiace unicamente della virtù, che non si accende né si avvilisce nelle alterne vicende della sorte, che n on conosce bene maggiore di quello che può procurarsi da solo, e per il quale il vero piacere è il disprezzo del piacere stesso. Se vogliamo allargare il discorso, possiamo usare altre forme, sempre nuove e diverse, ma la sostanza non cambierà.

Nessuno, per esempio, c’impedisce di dire che la felicità è un dono proprio di un animo libero, elevato, intrepido e costante, lontano da timori e desideri, per il quale l’unico bene è l’onestà e l’unico male la disonestà, e tutto il resto non è altro che uno spregevole insieme di cose che non tolgono e non aggiungono nulla alla felicità, la quale né diminuisce né si accresce col loro andare e venire. Un simile presupposto comporterà necessariamente, anche se noi non lo volessimo, una serenità ininterrotta, una gioia che sgorga dal profondo, intensa e duratura, perché gode di un bene che è suo e non desidera se non ciò che strettamente le appartiene. Per quale motivo non dovremmo credere che un tale stato possa compensare perfettamente i moti meschini, futili e passeggeri del nostro misero corpo? Quando uno è schiavo del piacere lo è anche del dolore, e non c’è schiavitù più dannosa e più trista che nel soggiacere ora all’uno ora all’altro di questi due tirannici e capricciosi padroni. Bisogna quindi liberarsene, e l’unica via sta nell’indifferenza di fronte alle mutevoli vicende della sorte: allora nascerà quell’inestimabile bene, la serenità di una mente sicura e decisa, l’elevatezza morale, e, una volta eliminato ogni timore, la gioia immensa e senza fine, proveniente dalla conoscenza del vero, l’affabilità e l’espansività; e tutti questi beni ci diletteranno non in quanto tali ma in quanto doti o qualità proprie dell’animo.

V. Visto che tessendo mi si è allargata la tela, aggiungerò che si può dire felice anche chi, s ervendosi della ragione, si è liberato dai desideri e dai timori. Certo, pure i sassi e gli animali sono privi di tristezze e di paure, ma non per questo possiamo chiamarli felici, perché non hanno il senso della felicità. Lo stesso si può dire di quegli uomini che per innata ottusità mentale ed ignoranza di sé annoveriamo fra i bruti e gli esseri inanimati: non c’è infatti alcuna differenza fra le due categorie, perché negli uni manca la ragione, negli altri c’è, ma è depravata, indirizzata unicamente a loro danno e perversione.

Non si può definire felice chi si trova fuori dalla verità.

La felicità, insomma, si fonda sulla capacità di formulare un giudizio retto, sicuro ed immutabile. Soltanto allora, infatti, la mente è pura e libera da ogni male, perché è riuscita a sottrarsi non solo alle lacerazioni ma anche alle minime scalfitture, e resterà sempre nella condizione che si è conquistata, anche se dovesse piombarle addosso tutta la rabbia dell’avversa 4

Lucio Anneo Seneca

La felicità

fortuna. Quanto al piacere – ci avvolga pure da tutti i lati e si diffonda per ogni vena, ci titilli l’animo con le sue continue ed insistenti lusinghe per turbarci, completamente o in parte –

quale uomo, a cui sia rimasto almeno un briciolo di umanità, vorrà lasciarsi solleticare giorno e notte e abbandonare l’animo, per dedicarsi unicamente al corpo?

VI. Ma anche l’anima – si obietterà – ha la sua parte nei piaceri. E se li prenda, si segga pure a giudice del lusso e di ogni genere di godimenti, si riempia sino alla sazietà di ciò che suole dilettare i sensi, poi si volga al passato e nel ricordo dei piaceri già consumati s’inebri di quel che ha provato e si protenda verso ciò che proverà, programmi le sue attese, e mentre il corpo se ne sta disteso, appesantito dal lauto pasto dell’oggi, spinga avanti il pensiero ai godimenti del domani; ebbene, tutto questo mi sembrerà ancora più meschino, poiché scegliere il male al posto del bene è pura e semplice follia. Nessuno può essere felice se non è sano di mente, e non è sano di mente colui che invece del meglio cerca ciò che gli nuocerà. In definitiva, è felice colui che giudica rettamente, è felice chi si accontenta della sua condizione, quale che essa sia, e gode di quello che ha, è felice colui che imposta e regola su basi razionali la condotta di tutta la sua vita.

VII. Anche quelli che fanno consistere la felicità nei godimenti sopra accennati riconoscono di collocarla in un posto quanto mai vergognoso, per cui cercano di conciliare le cose, dicendo che il piacere va a braccetto con la virtù e che non si può v ivere una vita onesta che non sia contemporaneamente amabile, e viceversa. Io non vedo come si possano accoppiare delle cose tanto diverse fra loro. Ditemi, per favore, per quale motivo non si può separare il piacere dalla virtù? Se è in questa che si trova l’origine di tutti i beni, com’è possibile che da quelle stesse radici provengano anche i piaceri, quei piaceri che voi, spinti dal desiderio, cercate con tanta insistenza? Se la virtù e il piacere non fossero distinti, come faremmo a vedere che alcune cose sono piacevoli ma non oneste, altre invece onestissime ma dure e conseguibili solo attraverso la sofferenza? Per non dire che il piacere può accompagnarsi anche alla più ignobile condotta, mentre la virtù non ammette una vita disonesta, e che alcuni sono infelici non perché senza piaceri ma proprio per via dei piaceri, il che non accadrebbe se il piacere fosse mescolato alla virtù, la quale, quando quello non c’è, non ne sente per questo alcun bisogno. Perché, dunque, volete mettere insieme cose diverse o addirittura contrarie fra loro? La virtù è un che di alto e profondo, un che di eccelso e regale, d’invincibile e d’instancabile, il piacere invece è meschino, servile, debole, caduco, staziona e alloggia nei bordelli e nelle osterie. La virtù la incontrerai nell’interno di un tempio, nel foro, in senato, a guardia delle mura, ricoperta di polvere, accaldata o con i calli alle mani, il piacere lo vedrai perlopiù nascosto o in cerca del buio, presso i bagni e le terme, o nei luoghi che temono la polizia, lo vedrai fiacco, snervato, imbevuto di vino e di unguenti, pallido o imbellettato, imbalsamato come un cadavere. Il sommo bene è immortale, non sfugge, non dà sazietà né rimorsi, giacché una mente retta non muta, non odia se stessa e non cede di un passo da quella sua condizione, che è la migliore; il piacere, invece, finisce nel momento stesso in cui giunge al suo culmine, ha uno spazio ristretto e perciò ben presto ci sazia e ci dà nausea, e già nel suo primo slancio s’infiacchisce. Non c’è nulla di stabile e di certo in ciò che per sua natura è soggetto a movimento, né può avere alcuna consistenza ciò che viene e se ne va in un baleno, destinato a perire nel 5

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medesimo istante in cui si consuma; tende infatti colà dov’è condannato a morire, e nel suo stess o principio ha già presente la fine.

VIII. Quanto poi al fatto che il piacere si trova sia nei buoni che nei cattivi e che gli scellerati godono della propria infamia non meno di quanto gli onesti si compiacciono del loro retto operare, dirò che – come gli antichi ci hanno insegnato – dobbiamo seguire la vita migliore, non la più dilettevole, e che il piacere non dev’essere guida ma soltanto compagno del buono e del giusto volere. Il nostro maestro è la natura, è lei che la ragione guarda e consulta. Perciò vivere felici e vivere secondo natura sono la medesima cosa, e dirò subito perché: se conserveremo le qualità fisiche e le inclinazioni naturali con cura e con serenità, nella consapevolezza che sono beni destinati a perire, se non ne subiremo la schiavitù e non ci lasceremo possedere dal mondo esterno, se le occasionali soddisfazioni del nostro corpo conteranno per noi come le truppe ausiliarie e i soldati armati alla leggera (che hanno il compito di servire, non di comandare), solo così tutto questo potrà essere utile alla nostra mente. Non dobbiamo lasciarci corrompere né dominare dal mondo che ci circonda, dobbiamo fare assegnazione solo su noi stessi, affidarci alle nostre personali capacità, risoluti sia nella fortuna che nella malasorte; dobbiamo, insomma, essere noi gli artefici della nostra vita e della nostra condotta. E però quella fede deve accompagnarsi alla scienza, ad un sapere saldo e costante, sì che quando abbiamo preso delle decisioni queste rimangano stabili e certe, senza riserve o cancellature di sorta. Va da sé –

né c’è bisogno ch’io mi dilunghi in questo discorso – che se ci atterremo a tali princìpi saremo equilibrati e ordinati, generosi ed affabili in ogni nostra azione. La ragione parta pure dai sensi nel fare le sue ricerche (i sensi, infatti, hanno il compito di stimolarla, né da altro essa può muovere nel suo slancio verso la verità), ma, una volta preso l’avvio, rientri subito in sé, come del resto fanno l’universo intero, che tutto abbraccia, e Dio stesso che lo governa, i quali, pur tendendo verso l’esterno, tornano poi, da ogni parte, nella loro intima essenza.

Questo deve fare la nostra mente. Dopo che dietro la spinta dei sensi e per loro mezzo si sia volta alle cose che la circondano, si mantenga padrona di queste e di se s tessa. Ne nasceranno una forza sola ed un potere concorde, e quella razionalità sicura che non conosce contrasti o tentennamenti nelle sue opinioni, nelle sue conoscenze e nelle sue convinzioni.

Quando la mente si sia così organizzata, ordinata e armonizzata, diciamo, in tutte le sue parti, il nostro animo avrà già raggiunto la felicità, perché in sé non avrà più nulla di riprovevole, nulla d’incerto, nulla in cui possa urtare o scivolare; agirà sempre di sua libera iniziativa e niente potrà accadergli che da lui non sia già stato previsto e calcolato, ma tutto ciò che farà avrà giusto e felice compimento, perché l’agire gli riuscirà facile, pronto e senza alcuna esitazione: la pigrizia, infatti, e l’indecisione rivelano l’esistenza di contrasti e di incoerenze, che un simile animo non ha. Perciò possiamo dichiarare apertamente che la felicità è l’armonia interiore, giacché le virtù si trovano nell’accordo e nell’unità: dove questi mancano non ci sono che vizi.

IX. Ma anche tu – mi dirai – coltivi la virtù unicamente perché speri di ricavarne un piacere. Ebbene, tanto per cominciare, il fatto che la virtù procuri un piacere non significa che la si cerchi per questo: il piacere è solo un’aggiunta, non la mèta del nostro sforzo: lo conseguiremo, ma mirando ad un altro fine, che è appunto la virtù. Come in un 6

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campo di grano spuntano qua e là dei fiorellini – ma non a questa erbetta, benché gradita agli occhi, mirava tanta fatica (altro era lo scopo del seminatore, i fiori sono un di più) – allo stesso modo il piacere non è né il premio né la causa della virtù, ma un elemento accessorio: il virtuoso non ne gode perché gli procura diletto, ma, dal momento che gli procura diletto, se ne compiace. La felicità, ancora, sta nella convinzione stessa di essere felici e nell’atteggiamento di una mente perfetta, che, giunta al termine del suo viaggio e postasi intorno i suoi limiti, ha pienamente realizzato il suo massimo bene e non chiede più altro, perché oltre al tutto non c’è nulla, non c’è nulla al di là della fine. Commetti dunque un errore quando mi chiedi per quale motivo io aspiri alla virtù, perché ti riferisci a qualcosa che dovrebbe stare al di sopra del massimo a cui si possa aspirare. Vuoi sapere che chiedo alla virtù? La virtù, nient’altro che la virtù. Essa infatti non può dare nulla di meglio, perché ha in se stessa il suo premio. Ti sembra poco? Se ti dico che «la felicità è fermezza inflessibile dell’anima, preveggenza, sublimità, ragionevolezza, libertà, bellezza ed armonia», chiedi ancora qualcosa di più grande a cui ascrivere tutti questi beni? Perché mi tiri in ballo il piacere? Io cerco il bene dell’uomo, non già quello del ventre, che – se la metti su questo piano – nelle bestie è ancora più capiente.

X. Mi obietterai che io traviso il senso delle tue parole, giacché tu pure sostieni che nessuno può essere felice se non è insieme onesto, e questo – dici – non potrà mai capitare alle bestie o a coloro che fanno consistere la propria felicità nel mangiare. E dichiari apertamente e pubblicamente che la felicità di cui parli tu non può sussistere se non è unita alla virtù. D’accordo. E chi non sa che sono i più sciocchi a rimpinzarsi di questi vostri piaceri, che la malvagità trabocca di godimenti e che persino l’animo, spesso, suggerisce molti e depravati tipi di piaceri? In primo luogo l’arroganza, l’eccessiva stima di se stessi, la superbia, che ci gonfia e ci fa sentire al di sopra di tutti gli altri, l’amore cieco e smodato dei propri averi, i godimenti sfrenati e l’esultanza per i più piccoli e puerili mo tivi, e ancora la mordacità e l’insolenza che si compiace di offendere, l’accidia e la dissoluzione dì un animo fiacco che dorme su se stesso. La virtù fa piazza pulita di tutto questo, tira le orecchie, valuta i piaceri prima di accoglierli e quei pochi che approva non li tiene in gran conto: li accetta, ma con cautela, e non gode perché ne fruisce, ma per l’uso moderato che ne fa. Il fatto che la temperanza sia una diminuzione non intacca la felicità. Tu apri le braccia al piacere, io lo tengo a freno, tu del piacere godi, io me ne servo, tu lo consideri il più grande dei beni, io non lo stimo neppure un bene, tu fai tutto per il piacere, io, per lui, non faccio niente di niente.

XI. Con ciò mi riferisco a quel tipo di saggio che tu consideri unico depositario del piacere. Ma per me non è saggio chi si trova sotto il potere di qualcosa, e tanto meno del piacere, perché se ne è dominato come può resistere alle fatiche, ai pericoli, alla povertà e a tutte le minacce che si affollano e strepitano intorno alla vita umana? Come potrà sopportare costui la vista della morte, i dolori, la furia fragorosa degli elementi, la nutrita schiera di feroci nemici, se si lascia vincere da un avversario così debole? Tu mi dirai:

«Farà tutte le cose che il piacere gli suggerirà». Bravo! E non vedi quante sono? «Ma non potrà consigliargli niente di disonesto», riibatterai, «perché è unito alla virtù». Ed io, a mia volta, ti riimbeccherò «Ma che razza di felicità è quella che, per essere tale, ha bisogno di un custode? E la virtù come 7

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potrà governare un piacere a cui va dietro, quando il seguire è proprio di chi ubbidisce, il guidare, invece, di chi comanda?

Tu, così, m’inverti le cose!» Voi attribuite alla virtù un nobile compito davvero: quello di assaggiatrice dei piaceri! Vedremo dopo se possa esserci fin qui un briciolo di virtù in coloro che l’offendono in questo modo: non si può infatti parlare di virtù quando si è lontani anche solo di un passo da quella condizione in cui essa propriamente consiste. Per ora, attenendoci all’argomento di cui abbiamo preso a trattare, ti mostrerò che ci sono molte persone assediate dai piaceri, alle quali la sorte ha profuso tutti i suoi doni, ma che tu riconoscerai, necessariamente, infelici. Guarda Nomentano ed Apicio, per esempio, che si cucinano i beni (così essi li chiamano) della terra e del mare, che sanno riconoscere, solo al vederli imbanditi sulla tavola, gli animali di ogni paese; guardali, mentre già si gustano con gli occhi il ghiotto cibo dall’alto del loro trono tappezzato di rose, riempiendosi l’udito di carezzevoli suoni, la vista di spettacoli, il palato dei più diversi sapori; il loro corpo è tutto acceso ed eccitato da morbide e lascive seduzioni, e affinché le narici, nel frattempo, non restino inoperose, il luogo stesso in cui si consuma il sacro rito della lussuria è impregnato dei più diversi profumi. Ebbene, potrai dire che costoro sono immersi nei piaceri, ma non che sono felici: essi infatti non godono di un bene.

XII. Obietterai che non sono infelici per questo, ma perché insorgono molti fattori a turbare il loro animo, e opinioni diverse e contrastanti gli rendono inquieta la mente. Ammetto che sia così, ma nondimeno, stolti ed incostanti, e sempre sotto i colpi del rimorso, provano grandi piaceri, per cui si deve riconoscere che sono tanto lontani dalla sofferenza quanto dalla buona razionalità, e, come accade alla maggior parte di loro, dominati da un’allegra follia che sfogano mediante un riso sfrenato. I piaceri del saggio, al contrario, sono modesti e pacati, quasi languidi, trattenuti e percettibili appena, inquantoché non sono stati invitati ed essendosi presentati di loro spontanea iniziativa non vengono accolti con tutti gli onori, né con gioia ed entusiasmo, da parte di colui che li riceve: il saggio, infatti, li mescola e li frappone alla vita, come il gioco e lo scherzo s’intercalano fra le severe occupazioni.

XIII. Finiamola dunque di mettere insieme cose inconciliabili fra loro, mescolando il piacere con la virtù: è un vezzo, questo, volto a giustificare e ad elogiare i vizi peggiori.

L’uomo che si abbandona alle gozzoviglie, che rutta continuamente ed è sempre ubriaco, visto che ne gode, s’illude che il piacere conviva con la virtù, anche perché sente dire così, per cui chiama sapienza i propri vizi e ostenta sfacciatamente ciò che invece dovrebbe nascondere. Quindi non è Epicuro che spinge questi individui alla lussuria, sono loro che, essendo dediti al vizio, celano la propria libidine nel grembo della filosofia, rifugiandosi in quella dottrina in cui si fa l’elogio del piacere. E però non si preoccupano di vedere quanto sia sobrio e sereno il piacere di Epicuro (questa, almeno, è la mia intepretazione), ma corrono diritti alla parola, in cui credono di trovare una giustificazione ed una maschera alle loro sfrenate passioni. E così perdono l’unico bene che gli restava, in mezzo a tutti quei mali, la vergogna del peccato: lodano infatti ciò di cui prima arrossivano e si vantano dei propri vizi. Per questo i giovani non hanno più la possibilità di riemergere da quel fango, quando ad un così turpe e pigro godimento si è conferito un attestato di onorabilità. Sono evidenti a questo punto i rischi che si annidano in un elogio avventato e superficiale del piacere, perché i precetti nobili e 8

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profondi contenuti in tale dottrina rimangono nascosti, mentre affiorano solo i sozzi germi della corruzione. Io sono fermamente convinto (e lo dico anche a dispetto dei miei colleghi della scuola stoica) che i precetti di Epicuro sono retti e santi, e se li guardiamo attentamente persino severi: il piacere infatti, per lui, si riduce a ben piccola e magra cosa ed è soggetto a quella stessa legge che noi stoici applichiamo alla virtù: esso deve, cioè, obbedire alla natura. Senonché ciò che basta alla natura non è sufficiente per il piacere. E allora? Chi chiama felicità l’ozio assoluto e l’alterno appagamento della gola e dei sensi cerca un buon avvocato per un’azione malvagia e, spinto su quella strada da una parola ingannevole, segue non il piacere di cui si parla in quella dottrina ma quello che ha scelto lui e che si porta appresso, e scambiati i suoi vizi per precetti filosofici vi si abbandona con indulgenza, sfacciatamente e senza più nascondersi nemmeno, anzi, finisce col praticare la lussuria addirittura in pubblico. Io perc iò non sostengo, come la maggior parte dei miei colleghi stoici, che la scuola di Epicuro è maestra d’infamie, dico che è diffamata, che ha una cattiva reputazione, e ingiustamente. Chi può sapere, del resto, come stanno esattamente le cose, se non ha ben studiato e approfondito questa dottrina? La sua facciata può dare adito a maldicenze e far nascere cattivi propositi.

Come se tu, uomo forte e vigoroso, ti presentassi in pubblico ricoperto di un abito femminile: tu ben conosci la tua onorabilità, la tua virilità è fuori discussione, il tuo corpo non indulge ad alcun atto di libidine, però… hai in mano il tamburello! Si scelga dunque per questa dottrina una definizione decorosa ed un’insegna che già di per se stessa sia di adeguato incitamento all’animo: quella attuale non fa che favorire i vizi. Chi si mette sulla via della virtù dà prova di un’indole nobile, chi invece va dietro al piacere è uno privo di nervi, un debosciato, un deviato, pronto a precipitare nei vizi più abominevoli, a meno che non abbia qualcuno che gli mostri la differenza fra i vari piaceri, sì ch’egli possa comprendere quali di essi rientrano nei limiti del desiderio naturale e quali invece corrono all’impazzata e senza fine, tanto più insaziabili quanto più si cerca di appagarli.

XIV. Sia dunque la virtù la nostra guida: seguendo lei ogni passo sarà sicuro. Il piacere, inoltre, quando è eccessivo nuoce, nella virtù non c’è da temere che vi sia nulla di troppo, perché è intrinseca in lei la moderazione. Tutto ciò che risente del proprio peso non è un bene. A chi ha avuto in sorte una natura razionale si può forse proporre qualcosa di meglio della ragione? Ora, se questa unione ci piace, se ci è gradito avviarci lungo il sentiero della felicità in tale compagnia, la virtù faccia da battistrada e il piacere l’accompagni, limitandosi a corteggiarla, come l’ombra che procede accanto al corpo ma senza confondersi con lui. Asservire al piacere la virtù, che è il più nobile dei beni, è proprio di chi non sa concepire nulla di grande. La virtù vada dunque per prima e sia lei a portare le insegne; il piacere lo avremo egualmente ma come suoi padroni e moderatori; ci pregherà di fare qualche strappo, qualche eccezione, alla nostra temperanza, ma non potrà mai piegarci a sé. Invece quelli che hanno dato la prerogativa del comando al piacere restano privi dell’uno e dell’altra, giacché perdono la virtù e, quanto al piacere, non loro godono di lui ma lui gode di loro; e se è scarso si tormentano, se è eccessivo ne sono soffocati, infelici se li abbandona, più infelici se li travolge: come i naviganti in balia delle Sirti, che ora restano bloccati in una secca, ora vengono sballottati dai ribollenti flutti. Questi sono i risultati di 9

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un’intemperanza smodata e di un amore cieco per l’oggetto dei nostri desideri. è rischioso, infatti, giungere in porto quando si va dietro al male quasiché fosse un bene. Come andiamo a caccia di bestie feroci tra fatiche e pericoli e una volta che le abbiamo catturate e le teniamo con noi stiamo sempre all’erta, visto che sp esso sbranano i proprietari, allo stesso modo chi si procaccia grandi piaceri incorre in gravi disgrazie, e quelli, che prima stavano al guinzaglio, diventano i suoi padroni; e quanto più essi sono forti e numerosi, tanto più piccolo e schiavo di più padroni si fa colui, che il volgo chiama felice. E, proseguendo con questa immagine, come il cacciatore, che dopo averne scovato i nascondigli, prende col laccio le selvagge fiere

e circonda di cani i grandi balzi,

e per seguirne le tracce tralascia cose di maggiore importanza e rinuncia a molti dei suoi impegni, così chi corre dietro al piacere dimentica tutto il resto e in primo luogo trascura la propria libertà, mettendola al servizio del ventre; si vende, insomma, ai piaceri, invece di comprarli.

XV. Ma cosa impedisce – si dirà – che virtù e piacere si fondano insieme, dando luogo ad una felicità che sia contemporaneamente onesta e piena di godimenti? Il fatto che l’onestà è costituita esclusivamente da tanti pezzetti di onestà, e che la felicità non sarebbe più autentica se dovesse accogliere in sé qualcosa che differisce da quella che è la migliore, cioè l’onestà. Nemmeno la gioia che nasce dal possesso della virtù, per quanto buona in se stessa, fa parte del bene assoluto, e così pure l’allegria e la tranquillità, anche se provengono dalle più nobili cause: sono infatti dei beni conseguenti; dei compagni, che non rappresentano il completamento della felicità. Chi invece mette insieme virtù e piacere – e neppure in eguale misura – con la fragilità di un bene spegne tutto il vigore che c’è nell’altro e finisce col mandare sotto il giogo la libertà, che si mantiene intatta solo se non le si presentino altri beni spacciati come più preziosi. Si comincia, così, ad avere bisogno della fortuna (e questa è la peggiore delle schiavitù), con la conseguenza che si vive una vita piena di ansie, di sospetti, di trepidazioni, timorosa di ogni evento, come attaccata ad un filo. In tal modo non si dà alla virtù un fondamento solido e stabile, ma la si colloca sopra una base malferma; e che c’è di più instabile ed insicuro dell’affidarsi al caso, o delle continue variazioni del nostro corpo fisico e di tutto ciò che lo riguarda? Come può obbedire a Dio e accogliere con animo sereno qualunque avvenimento, senza lagnarsi della sorte, perché sa interpretare sempre benevolmente i propri casi, un uomo che si scuote ai più piccoli stimoli del piacere e del dolore? Non può nemmeno difendere o liberare la patria, o sostenere gli amici, se pensa solo al piacere. La felicità salga sopra una cima, da cui nessuna forza possa tirarla giù, a cui non abbiano accesso né dolori, né speranze, né timori, né alcun’altra cosa che possa intaccare la sua prerogativa: soltanto la virtù può arrivare a quell’altezza, giacché solo il suo passo vince l’ardua salita. E piazzatasi lì, saldamente, sopporterà qualsiasi evento non solo con pazienza, ma di buon grado, ben sapendo che le avversità della vita fanno parte della legge di natura; reggerà alle ferite come un valoroso soldato che conti le sue cicatrici e trafitto dai dardi, anche in punto di morte resta fedele al suo capo, per il quale è caduto; e avrà sempre nel cuore l’antica massima stoica: «Conformati a Dio». Chi si lamenta, piange e si dispera, è costretto a servire come un forzato, ad obbedire contro il proprio volere. Ma non è una follia farsi trascinare a 10

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forza, invece di seguire con remissività? Così pure è stoltezza e ignoranza della nostra umana condizione dolersi perché qualcosa ci manca o ci riesce sgradito, meravigliarsi e sdegnarsi di dover sopportare ciò che capita tanto ai buoni quanto ai cattivi, come le malattie, i lutti e tutte le altre disgrazie della vita. Accettiamo quindi con animo forte tutto ciò che c’impone la legge stessa dell’universo: a questo impegno siamo chiamati, come da un giuramento: ad accettare il nostro stato mortale e a non lasciarci turbare da ciò che non ci è dato di evitare. Il nostro è un mondo di schiavitù: il solo modo per uscirne è l’ubbidire a Dio: è questa l’unica, possibile libertà.

XVI. La vera felicità, dunque, risiede nella virtù, la quale ci consiglia di giudicare come bene solo ciò che deriva da lei e come male ciò che proviene invece dal suo contrario, la malvagità. Poi, di essere imperturbabili, sia di fronte al male che di fronte al bene, in modo da riprodurre in noi, per quanto è possibile, Dio. Quale premio per questa impresa la virtù ci promette privilegi immensi, simili a quelli divini: nessuna costrizione, nessun bisogno, libertà totale, assoluta, sicurezza, inviolabilità; non tenteremo nulla che non sia realizzabile, niente ci sarà impedito, né potrà accaderci alcunché che non sia conforme al nostro pensiero, niente di avverso, niente d’imprevisto o contro la nostra volontà. «Cosa?», mi dirai.

«La virtù basta per vivere felici?» E come potrebbe non bastare, quand’è perfetta e divina? Anzi, è più che sufficiente.

Che può mancare, infatti, a chi si trova fuori da ogni desiderio? Non può venirgli nulla dall’esterno, quando ha già tutto dentro di sé. «Ma chi procede verso la virtù», replicherai,

«anche se ha fatto molta strada, dev’essere un po’ aiutato dalla fortuna, fintantoché si dibatte tra le vicende umane, sino a che non sciolga quel nodo e non infranga ogni legame mortale. Che differenza c’è, allora, fra costui e gli altri?» Che questi sono legati solidamente, strettamente, e anche con molti nodi, a quello, invece, che si è avviato verso una dimensione superiore, spingendosi più in alto, la catena s’è allentata: egli non è ancora libero, ma è come se lo fosse.

XVII. A questo punto qualcuno di quelli che abbaiano contro la filosofia verrà, come al solito, a dirmi: «Ma tu, perché parli da persona virtuosa, quando la tua vita non lo è?

Perché abbassi la voce di fronte ai superiori, consideri il denaro una necessità, ti turbi se qualcosa ti va storto, p iangi per la morte di tua moglie o di un amico, ti preoccupi del tuo buon nome e ti senti toccato dalle parole maligne? E perché il tuo podere produce più di quanto non richiedano i tuoi bisogni naturali? Perché i tuoi pasti non sono conformi ai tuoi insegnamenti, hai dei mobili raffinati e bevi vino più vecchio di te? Perché hai piazzato in casa un’uccelliera, piantato alberi che non dànno altro che ombra, tua moglie porta appesa alle orecchie tutta l’oreficeria della tua ricca casa e i tuoi schiavetti indossano vesti preziose? Perché da te servire a tavola è un’arte, sulla mensa l’argenteria non viene disposta a caso o a piacere ma sistemata con estrema perizia, ed hai persino uno scalco, preposto al taglio delle vivande?» E andando avanti di questo passo: «Perché hai delle proprietà pure al di là del mare, e così numerose che non sai nemmeno quante sono? è un’indecenza! O sei trascurato a tal punto da non conoscere neppure quei pochi schiavi che hai, o, vivendo in un lusso sfrenato, ne possiedi più di quanti la tua memoria sia capace di contenerne». Ebbene, io stesso, fra poco, rincarerò la dose delle accuse mossemi da quei signori, rimproverandomi più difetti di quanti essi non pensino; per ora mi limiterò a 11

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rispondere: «Non sono saggio; e, per dare ancora più esca alla vostra malignità, aggiungo che non lo sarò mai. Non pretendete, dunque, che io sia uguale ai migliori, chiedetemi solo di essere migliore dei cattivi: è già un passo avanti se riesco a togliere ogni giorno qualcosa ai miei difetti e a biasimare i miei errori. Non sono guarito, e non guarirò: per la mia gotta più che dei toccasana preparo dei calmanti, accontentandomi di ridurre il numero degli attacchi e l’intensità del dolore, ma di fronte a voi, se misuro i miei deboli piedi con i vostri, io sono un corridore». E dico questo non per me, giacché io sono in un oceano di vizi, ma per chi ha già fatto qualcosa sulla via della virtù.

XVIII. «Comunque», mi si replicherà, «resta il fatto che tu parli in un modo e vivi in un altro». Ebbene, questo rimprovero, o teste maligne e inimicissime delle più degne persone, è stato rivolto anche a Platone, ad Epicuro e a Zenone: ma essi descrivevano non già il modo in cui vivevano bensì i precetti secondo i quali avrebbero dovuto e voluto vivere. Io non parlo di me, ma della virtù, e se grido contro i vizi mi riferisco soprattutto ai miei: quando sarò riuscito a liberarmene, vivrò come si conviene ai miei insegnamenti, dai quali non potrà allontanarmi tutta la velenosa malignità che mi gettate addosso; e neppure quella che spargete sugli altri, e con la quale uccidete voi stessi, m’impedirà di continuare a tessere l’elogio di una vita, che non è quella ch’io conduco, lo so, ma che ritengo che si debba vivere; non m’impedirà di amare la virtù e di seguirla anche strisciando e a grande distanza.

Dovrei forse sperare che risparmi qualcosa questa malevolenza che non ha rispettato nemmeno la sacralità di Rutilio e di Catone? O preoccuparmi di sembrare troppo ricco a della gentucola per la quale persino il cinico Demetrio non è abbastanza povero? Quest’uomo rigidissimo, perennemente in lotta contro tutti i bisogni naturali, ancora più indigente degli altri cinici, perché mentre costoro si negano il possesso di qualsiasi bene materiale, egli s’è imposto anche il divieto di chiedere. E poi dicono che non è abbastanza povero! Eppure è chiaro: egli non ha professato la teoria della virtù, ma ha praticato la povertà.

XIX. E Diodoro? Il filosofo epicureo che pochi giorni fa ha troncato, di sua mano, il filo della propria esistenza? Dicono, alcuni, che non ha agito secondo i precetti del maestro, perché si è tagliato la gola; altri vogliono vedere nel suo suicidio un segno di pazzia, altri ancora un atto di temerarietà; ma lui, intanto, felice e pieno di una coscienza vigorosa e pura, ha dato una testimonianza, e non soltanto a se stesso, nello staccarsi da questo mondo; ha lodato la calma e la serenità di una vita vissuta come in un porto e all’ancora, dicendo cose che voi avete ascoltato a denti stretti, quasiché vi avesse invitato a fare altrettanto:

Sono vissuto: il ciclo che la sorte m’ha dato è compiuto.

Voi disputate sulla vita dell’uno e sulla morte dell’altro e abbaiate di fronte al nome di uomini divenuti insigni per qualche lodevole merito, come fanno i cagnolini all’avvicinarsi di persone sconosciute. La verità è che a voi fa comodo che nessuno risulti virtuoso, perché la virtù degli altri suona come un rimprovero alle vostre malefatte. Invidiosi quali siete, confrontate lo splendore morale di quelle vite con la vostra sozza materialità, e non vedete il danno che fate a voi stessi con una simile presunzione, perché se gli uomini virtuosi sono degli avari, dei dissoluti e degli ambiziosi, cosa sarete voi, che avete in odio persino il nome di virtù?

Proclamate che nessuno, di quelli che voi accusate, mette in 12

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pratica ciò che dice, né vive secondo il modello che va predicando: ma c’è già da meravigliarsi che vi siano al mondo delle persone così coraggiose, che parlano di cose tanto straordinarie, tali da sottrarsi a tutte le tempeste della vita.

Anche se non riescono a staccarsi dalle loro croci, quelle croci in cui ciascuno conficca di propria mano i suoi chiodi, perlomeno, una volta giunti alla morte, pendono ognuno da un solo palo, mentre voi, che badate soltanto a voi stessi, siete lacerati da tante croci quante sono le vostre passioni. Siete dei maldicenti, bravi solo ad offendere gli altri. Gente come voi potrei anche crederla priva di questo vezzo, se non ce ne fossero alcuni che persino mentre pendono dalla forca lanciano sputi sugli spettatori.

XX. I filosofi, dunque, predicano bene e razzolano male: così cianciate voi. E invece fanno già molto, proprio perché certe cose perlomeno le dicono, e concepiscono pensieri di virtù e di onestà; se poi agissero in piena conformità dei loro insegnamenti quale uomo potrebbe essere più felice di loro?

Intanto, non c’è motivo di disprezzare le buone parole e gli animi ricchi di pensieri virtuosi, e poi il coltivare salutari inclinazioni è di per sé lodevole, indipendentemente dai risultati che si possono conseguire. Forse che ci meravigliamo se non giunge sino alla vetta chi s’è incamminato lungo una dura salita? Se siamo uomini non possiamo non ammirare coloro che han posto mano a degne imprese, anche se poi cadono senza toccare la mèta. è di un animo nobile tentare, guardando non alle sue forze personali ma ai poteri della propria natura, mirare in alto e concepire azioni superiori anche a quelle che possono compiere delle persone eccezionalmente dotate. Ci sono uomini che si sono p roposti questi obiettivi: «Guarderò la morte con lo stesso volto con cui ne sento parlare. Mi assoggetterò a qualunque fatica, sostenendo il corpo con l’animo. Disprezzerò le ricchezze, ch’io le possieda o no, né mi dorrò per il fatto che le abbiano altri o monterò in suberbia se mai mi splendessero intorno. Non darò peso alla fortuna, sia che m’assista, sia che m’abbandoni.

Guarderò tute le terre del mondo come se fossero mie e le mie come se appartenessero all’intera umanità. Vivrò con la convinzione di essere nato per gli altri, ricambiando così la natura per avermi generato: quale dono più grande, infatti, avrebbe potuto farmi? Ha donato me solo a tutti gli altri, e tutti gli altri a me solo. Non sarò né un tirchio né uno spendaccione, farò conto di non possedere niente di più di quanto avrò opportunamente donato, e i beni che dispenserò non li giudicherò dal numero o dal peso ma in base alla mia stima per chi li riceverà; non riterrò mai troppo grande il dono che farò ad una persona degna. In ogni mia azione non seguirò l’opinione degli altri ma soltanto la mia coscienza, e anche se ne sarò consapevole io solo mi comporterò come se agissi al cospetto del mondo. Nel mangiare e nel bere perseguirò l’unico scopo di soddisfare i miei bisogni naturali, non quello di riempirmi e di svuotarmi lo stomaco; sarò amabile con gli amici, mite e indulgente con i nemici, e quando qualcuno starà per chiedermi qualcosa di onesto lo preverrò, per non metterlo nelle condizioni di dovermi pregare. Conoscerò come mia patria il mondo, gli dèi come mia guida, sempre al di sopra e intorno a me, censori d’ogni mio gesto e d’ogni mia parola, e quando la natura vorrà riprendersi il mio soffio vitale, anche armando la mano alla ragione, me ne andrò via di qui, testimoniando di avere sempre amato la retta coscienza e i nobili propositi, di non avere mai diminuito la libertà di alcuno, e tanto meno la mia». Chi si prefiggerà tutto questo, e 13

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La felicità

si sforzerà di metterlo in atto con viva determinazione, salirà verso il regno degli dèi, e, quand’anche fallisse la meta, si potrà dire di lui:

è tuttavia caduto nell’osare una nobile impresa.

Ma voi, col pretesto che odiate la virtù e coloro che la coltivano, non fate niente d’insolito, niente che si levi al di sopra dell’ordinario, simili agli occhi malati che temono la luce del sole o agli animali notturni che aborrono lo splendore del giorno e al primo chiarore dell’alba, abbagliati e storditi, corrono disordinatamente verso le loro tane o s’infilano in qualche fessura, tanto sono spaventati dalla luce. Ringhiate pure, esercitate la vostra sterile lingua nel calunniare le persone dabbene, spalancate la bocca, mordete: vi spezzerete i denti, senza poterle nemmeno scalfire.

XXI. «Come mai quel tale», così dirà ancora qualcuno, «si professa filosofo e vive da riccone? Perché proclama che si deve disprezzare il denaro e gli altri beni materiali, e tuttavia non se ne disfa? Persino la vita detesta, ma intanto non s’è ancora ammazzato. E perché va gridando ai quattro venti che non bisogna curarsi della salute e poi invece le mostra ogni riguardo e la vuole persino eccellente? Definisce l’esilio un vuoto nome, sostiene che non è una disgrazia cambiare nazione, ma fa di tutto per invecchiare nel suo paesello. E

mentre dichiara, da un lato, che non gl’importa un fico se campa un solo giorno oppure un secolo, dall’altro, se non gli piglia un colpo, si allunga l’esistenza più che può, mantenendosi arzillo e beato magari sino a cent’anni». Ora, è vero che il filosofo dice che tutte queste cose si debbono disprezzare, ma non nel senso che siano da rifiutarsi a priori, bensì nel senso che, pur possedendole, non bisogna lasciarsi influenzare da loro; egli, insomma, non le respinge, ma, sia che vengano, sia che se ne vadano, le guarda con distacco. D’altronde è proprio qui che la fortuna può mettere più al sicuro i propri doni, presso uno da cui sa che potrà riprenderseli senza riceverne querele e maledizioni. Marco Catone, al tempo in cui tesseva le lodi di Curio e di Coruncanio, e di quando avere poche lamine d’argento era un crimine punito dai censori, possedeva personalmente una ricchezza di quattro milioni di sesterzi, inferiore senz’altro a quella di Crasso, ma superiore a quella di Catone il Censore. Per fare un paragone, aveva distanziato il suo bisnonno più di q uanto Crasso non distanziasse lui, e se gli fossero piovute ancora altre ricchezze non le avrebbe rifiutate. Il saggio, infatti, non si reputa indegno dei doni della fortuna e quanto alle ricchezze accetta di averle ma non le ama, esse non entrano nel suo animo, gli stanno solo intorno: le tiene, sì, ma per dominarle, e perché possano fornire una più ricca materia ed un più vasto campo alla sua virtù.

XXII. è chiaro, infatti, che il saggio ha maggiori e più valide possibilità di sperimentare il suo animo nella ricchezza che non nella povertà, giacché in questa si esercita un solo tipo di virtù, la sopportazione, mentre nella ricchezza possono esplicarsi, in una sfera più ampia, anche altre qualità, come la temperanza, la liberalità, l’accortezza, la capacità d’imporsi delle regole, la magnificenza. Il saggio non si duole né si disprezza se è di bassa statura, ma al tempo stesso ritiene preferibile, anche per sé, essere alti; così, se è magro o privo di un occhio non dà importanza alla cosa, e tuttavia vorrebbe un corpo robusto, sempre però tenendo presente ch’esistono doti molto più importanti. Allo stesso modo accetterà una cattiva salute, ma non per questo dovrà negarsi il desiderio di stare in perfetta forma. Certe cose, infatti, anche se in rapporto all’insieme hanno scarso valore e possono venire a mancare 14

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senza che il bene principale vada in rovina, sono sempre un quid in più, rispetto a quella gioia duratura che nasce dalla virtù: i beni materiali rasserenano il saggio e gli procurano la stessa sensazione che un venticello leggero e propizio arreca al marinaio durante la navigazione, o quella che possono darci una bella giornata o un luogo soleggiato nel freddo e rigido inverno. E poi nessuno dei saggi (parlo dei nostri, che stimano quale unico bene la virtù) nega che anche le cose che chiamiamo «indifferenti» abbiano in sé dei pregi, in una loro scala di valori, in base alla quale da alcune si ricava poco onore, da altre, invece, molto. Perciò non sbaglierai se porrai le ricchezze fra le cose da preferire. «E perché allora mi deridi», obietterai, «visto che tu le tieni nella stessa considerazione in cui le tengo io?» Non è la stessa, e te lo dimostro subito: a me, se se ne andranno, non porteranno via niente, tu, invece, se ti lasceranno, resterai sbalordito, quasiché fossi stato privato di te stesso. Le ricchezze per me occupano solo un posto, nella vita, uno qualunque, per te quello più alto; io le possiedo, tu ne sei posseduto.

XXIII. Smettila, dunque, di negare ai filosofi il diritto di possedere denaro: nessuno ha condannato la saggezza alla povertà, anche il filosofo può avere grandi ricchezze, quando queste non siano state rubate, non grondino di sangue altrui e il loro acquisto non abbia fatto torto ad alcuno, non provengano da ignobili speculazioni e le uscite siano tanto oneste quanto lo sono state le entrate, sì che nessuno, tranne gl’invidiosi, abbia motivo di criticare. Ammassane perciò quante ne vuoi: sono pulite. Sono pulite perché, per quante ognuno voglia averne per sé, non c’è fra esse un so lo granello che possa dirsi suo. E perché poi il filosofo dovrebbe allontanare da sé la benevolenza della fortuna? Né egli si farà vanto o arrossirà di un patrimonio acquisito onestamente; avrà un solo motivo per gloriarsene, se, spalancata la sua casa e chiamata a raccolta tutta la città davanti alle sue ricchezze, potrà dire senza timore: «Se qualcuno vi riconosce qualcosa di suo, lo prenda pure». O uomo degno e giustamente ricco chi, dopo tale invito, manterrà intatti i suoi averi! Intendo dire: se il saggio potrà sottoporsi ad un simile esame da parte di tutto il popolo con la coscienza tranquilla e sicura, se nessuno troverà presso di lui un solo spillo su cui mettere le mani, allora egli sarà ricco, orgogliosamente e davanti agli occhi di tutti. Il saggio non farà mai passare dalla sua soglia un solo soldo di provenienza sospetta, ma al tempo stesso non rifiuterà né scaccerà ricchezze anche cospicue, se sono dono della fortuna o frutto della virtù. E per quale motivo dovrebbe negare loro un posto onorevole? Ben vengano, e siano accolte in qualità di ospiti. Il saggio non se ne vanterà né le nasconderà (nel primo caso si comporterebbe come uno sciocco, nel secondo come un timido e un pusillanime, che si tiene stretti al seno i suoi averi quasi che fossero un gran bene), e neppure, ripeto, le caccerà di casa. Potrebbe forse dir loro: «Voi siete inutili», o: «Io non so servirmi delle ricchezze»?

Come, pur potendo andare a piedi, preferisce viaggiare sopra un carro, così, se da povero potrà diventare ricco, non si tirerà indietro; ma si terrà le sue ricchezze quali beni leggeri e pronti sempre a volarsene via, né lascerà che esse costituiscano un peso, per se stesso o per gli altri. Donerà (ma non drizzate le orecchie e non aprite la vostra borsa), donerà ai buoni, o a quelli che potranno diventarlo, scegliendo i più degni con la massima oculatezza e ricordandosi che si deve rendere conto sia delle entrate che delle uscite; donerà per motivi onesti e plausibili, perché un dono sbagliato è un 15

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inutile spreco, e avrà la borsa pronta e disponibile, ma non bucata, dalla quale esca molto, e niente scivoli via.

XXIV. Donare non è facile, e chi pensa che lo sia sbaglia di grosso: quel gesto, infatti, presenta molte difficoltà, almeno quando lo si compia non a casaccio o impulsivamente, bensì a proposito e col dovuto discernimento. Ad uno doneremo per farcelo amico, ad un altro per restituirgli, un favore, ad un altro ancora per soccorrerlo; a questo per compassione, a quello perché merita di non perdersi tra i morsi della fame; ad alcuni invece non daremo nulla, anche se si trovano in ristrettezze, per il semplice fatto che se li aiutassimo non muoverebbero un dito per tirarsene fuori da sé; a certuni ci limiteremo ad offrire, ad altri, addirittura, imporremo di accettare. Non si può agire con disinvoltura in questa faccenda, perché quello di donare è il nostro migliore investimento.

«Tu, allora, doni per ricevere?», mi obietterà qualcuno.

No, dono per non perdere. Il beneficio vada a persone meritevoli e sicure, a cui poi non debba essere rinfacciato, ma da cui possa essere ricambiato; sia depositato come un tesoro seppellito a grande profondità, che non viene dissotterrato se non in caso di necessità. Ma poi, anche la casa di un uomo ricco quante possibilità offre, essa s tessa, di fare del bene!

Perché, infatti, essere liberali soltanto con persone di ceto elevato? La natura ci comanda di giovare agli uomini, siano essi liberi o schiavi, nobili o affrancati, né importa se la loro libertà sia riconosciuta dalla legge o ottenuta per ragioni di amicizia: dovunque c’è un uomo, lì c’è l’occasione per fare del bene. Non occorre uscire di casa per elargire denaro: anche dentro le mura domestiche si può esercitare la liberalità, la quale è chiamata così non perché sia indirizzata ad individui liberi ma perché libero è l’animo di colui che la pratica. E

quella del saggio non si volge mai verso gl’immeritevoli o i malvagi, né mai si sente tanto stanca da non tornare a profondere, come se avesse ancora la borsa piena, ogni volta che incontra una persona degna. Non fraintendete, quindi, ciò che dicono i filosofi, le loro sono parole oneste, forti e appassionate. E soprattutto vi sia ben chiaro questo: altro è aspirare alla saggezza, altro il possederla. Nel primo caso diremo: «Io parlo bene, ma mi dibatto ancora in mezzo a molti difetti: non giudicatemi, dunque, in base alla regola che mi sono imposto, perché mi trovo solo sulla strada, verso quel nobilissimo modello a cui tendo con tutte le mie forze. Se sarò andato avanti in questo processo tanto quanto mi sono proposto, allora sì potrete pretendere che i fatti corrispondano alle mie parole». Se invece avremo raggiunto il culmine di questo nostro bene, ci comporteremo diversamente, e diremo:

«Innanzitutto non permettetevi di giudicare chi è migliore di voi: il fatto che io dispiaccia ai disonesti è già una prova della mia onestà. Se poi volete che vi dia una spiegazione, che non nego mai a nessuno, ascoltate bene ciò che sto per dirvi e quanto stimo le cose. Io non sostengo che le ricchezze siano un bene, per il semplice motivo che se lo fossero renderebbero buoni gli uomini, e perché mi rifiuto di definire bene ciò che si trova anche in mano di persone cattive. Dico però che il possesso delle ricchezze è legittimo, perché esse sono utili e apportano alla vita grandi vantaggi».

XXV. «Visto, dunque, che siamo tutti d’accordo sul fatto che le ricchezze si debbano possedere, sentite perché io non le considero un bene e perché nei loro confronti mi comporto diversamente da voi. Mettetemi in una casa straricca, dove anche gli oggetti d’uso comune siano d’oro e d’argento: non monterò in superbia per codesta roba, che, pur essendo in casa 16

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mia, mi è tuttavia estranea. Da lì portatemi sul ponte Sublicio e gettatemi in mezzo agli straccioni: non per questo mi farò schifo, per il fatto, cioè, di starmene seduto fra coloro che stendono la mano per l’elemosina. Che importa, infatti, di fronte alla morte, poiché tutti dobbiamo morire, se mi manca un pezzo di pane? Ciò però non m’impedisce di preferire ad un ponte una ricca casa. Mettetemi in mezzo a mobili lussuosi e fra gli agi più raffinati: non mi riterrò più felice perché ho un cuscino morbido o faccio distendere i miei convitati su tessuti di porpora. Cambiate ora il mio letto: non sarò certo più misero perché il corpo stanco riposa su un mucchio di fieno o su un pagliericcio da circo che perde l’imbottitura dai rattoppi della vecchia tela. Nondimeno preferisco esprimere i miei sentimenti e i miei pensieri con indosso la toga pretesta piuttosto che con le spalle scoperte. Così, se i giorni passassero secondo i miei desideri, apportandomi sempre nuove soddisfazioni e riconoscimenti, non per questo mi compiacerò di me stesso. Rovesciate adesso la situazione e da un tempo così benevolo trasportatemi in un altro, in cui il mio animo sia circondato e tormentato da lutti e da ogni genere di avversità, e non vi sia un momento di tregua ai miei lamenti: ebbene, anche nella più nera miseria non mi dirò infelice, non maledirò nessuno dei miei giorni, perché ho già preso le mie precauzioni, ho già disposto il mio animo in modo che non vi siano giornate nere per me. Con ciò preferisco moderare le mie gioie piuttosto che dover placare i miei dolori». Il grande Socrate dirà: «Immaginate ch’io abbia sottomesso il mondo intero, che il raffinato carro di Libero mi trasporti in trionfo da Oriente sino a Tebe e che ogni re ricorra al mio giudizio: ebbene, soprattutto allora continuerei a ritenermi un uomo, quando da ogni parte mi salutassero come un dio. Ribaltate ora le cose e da una tale altezza precipitatemi nel più profondo abisso: mettetemi sopra una lettiga, come un prigioniero, per abbellire il trionfo di un vincitore superbo e fiero: non mi sentirò più umile dietro un carro altrui di quanto non lo fossi quando stavo su l mio. Con ciò preferisco vincere piuttosto che essere catturato. Disprezzerò l’intero regno della fortuna, ma da lì, se mi sarà dato di scegliere, prenderò il meglio. Qualunque cosa mi toccherà sarà benvenuta per me, ma preferisco trovarmi in situazioni favorevoli e più liete, o che meno possano molestarmi nell’affrontarle. Non ci sono virtù che non comportino uno sforzo, ma alcune hanno bisogno di sprone, altre di freno. Come il corpo se va lungo un pendio dev’essere trattenuto e lungo un’erta, invece, sollecitato, così è delle virtù, alcune vanno in discesa, altre in salita.

Chi potrebbe infatti dubitare che salgano, si sforzino e lottino, la pazienza, la fortezza, la perseveranza e tutte le altre virtù che si oppongono alle avversità e dominano la fortuna? E

d’altra parte non è altrettanto evidente che la liberalità, la moderazione e la bontà procedono come in discesa? In queste freniamo l’animo affinché non scivoli, in quelle l’esortiamo e l’incitiamo energicamente. Quindi, per la povertà ci serviremo di quelle virtù che essendo più forti sanno combattere, per la ricchezza di quelle più accorte, che camminano a passi brevi, sorreggendo il loro carico. Stando così le cose, preferisco avere quelle virtù che si possono praticare con maggiore tranquillità, che non quelle il cui esercizio costa sudore e sangue. In definitiva – conclude il saggio – non è ch’io viva diversamente da come parlo, è che voi fraintendete quello che dico, perché alle vostre orecchie arriva solo il suono delle parole, ma quanto al loro significato non vi date neppure la pena di cercarlo».

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XXVI. «Ma allora», mi obietterete, «che differenza c’è fra uno stolto ed un sapiente, se sia l’uno che l’altro aspirano al possesso di beni materiali?» Una differenza enorme: il sapiente, infatti, tiene le ricchezze presso di sé come sue schiave, lo stolto, invece, come sue padrone; al saggio esse non dànno praticamente nulla, mentre a voi permettono tutto; voi vi ci attaccate e vi ci abituate come se qualcuno ve ne avesse assicurato il possesso in eterno, il saggio soprattutto allora pensa alla povertà, quando si trova in mezzo alla ricchezza.

Nessun generale confida tanto nella pace da non prepararsi alla guerra, quando questa, se non ancora in atto, è tuttavia nell’aria; voi, invece, vi fate arroganti perché avete una bella casa, come se questa non potesse mai prendere fuoco o crollare, e restate abbagliati di fronte alle ricchezze come se queste fossero esenti da ogni pericolo e al di sopra della stessa fortuna, quasi che questa non avesse forze bastanti a distruggerle.

E giocate con loro, oziosamente, incuranti dei rischi, come certi barbari quando, assediati dai nemici, ignari delle macchine da guerra, stanno lì a contemplare, senza muovere un dito, gli sforzi degli assedianti, non comprendendo a che servano quelle apparecchiature che vedono innalzarsi da lontano. Così capita a voi: marcite in mezzo ai vostri averi e non pensate agli accidenti numerosi e improvvisi che vi sovrastano, pronti a rubarvi quel prezioso bottino. Il saggio, invece, potrà perdere tutte le ricchezze, ma i beni suoi gli rimarranno: egli sa vivere, infatti, solo di ciò che possiede al momento, con animo lieto e senza alcuna preoccupazione del suo futuro. «Non c’è in me volontà più decisa», direbbe il grande Socrate (e con lui chiunque abbia un tale privilegio e un tale potere di fronte alle cose umane), «che quella di non piegare alle vostre opinioni alcun atto della mia vita. Assediatemi pure da ogni parte con le solite punzecchiature: per me non sono che vagiti di poveri neonati» . Così parla l’uomo saggio, il cui animo è privo di vizi e si sente spinto a rimproverare gli altri non per odio ma perché vuole correggerli.

E aggiunge: «I vostri apprezzamenti mi toccano non per me ma per voi stessi, perché l’astio e gl’insulti che lanciate alla virtù vi tolgono ogni possibilità di conseguire qualcosa di buono. Voi non mi fate alcuna offesa, così come non ledono gli dèi coloro che ne abbattono gli altari. E però, anche se non possono nuocere, il cattivo proposito e il disegno perverso sono comunque visibili. Ed io sopporto i vostri vaneggiamenti come Giove Ottimo Massimo le fantasie dei poeti, che ora lo raffigurano con le ali, ora lo descrivono come un adultero che passa le notti fuori di casa, ora lo dicono crudele verso gli dèi, ingiusto con gli uomini, sequestratore di poveri mortali e magari di parenti, o addirittura parricida e usurpatore del regno paterno; fantasie che, col far credere un simile comportamento da parte degli dèi, hanno spento negli uomini il senso del peccato. Ora, per quanto i vostri deliri non mi tocchino minimamente, nel vostro interesse vi dico: abbiate rispetto per la virtù, credete a chi, dopo averla seguita a lungo, proclama di andar dietro a qualcosa di grande e che di giorno in giorno cresce sempre di più; veneratela, come si venerano gli dèi, unitamente a coloro che la professano quali suoi sacerdoti, e ogni volta che sentite nominare i testi sacri favete linguis.

Con questa espressione non s’intende – come credono i più – domandare un favore, ma solo imporre il silenzio, affinché la cerimonia sacra possa compiersi secondo il rituale e senza che alcuna voce profana la disturbi; questo vale soprattutto per voi, perché ascoltiate attenti e a bocca chiusa tutto ciò che l’oracolo in quell’occasione proclamerà. Quando 18

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uno sconosciuto va gridando menzogne dietro comando, agitando un sistro, quando un imbroglione, esperto nel ferirsi le membra, s’insanguina con mano accorta e leggera le braccia e le spalle, quando una donna, strisciando sulle ginocchia lungo la via, urla come un’ossessa, oppure un vecchio, coperto di lino e coronato di alloro, e con in mano una lucerna in pieno giorno, grida che qualche dio è adirato con noi, allora, sì, voi correte a frotte ad ascoltare, e, passando di stupore in stupore, giurate che quella tale persona è ispirata dagli dèi».

XXVII. Guardate ora Socrate, che da quella sua prigione, purificata dalla sua presenza e resa più onorevole di qualsiasi senato, proclama: «Quale pazzia, quale impulso, ostile agli uomini e agli dèi, vi spinge a calunniare la virtù e a profanare le cose sacre con discorsi malevoli? Se ne siete capaci, lodate i buoni, altrimenti smettetela. Se poi vi piace esercitare codesta vostra vergognosa licenza, azzuffatevi fra di voi. Quando scagliate contro il cielo le vostre folli bestemmie, più che commettere un sacrilegio, perdete il vostro tempo. Una volta fui oggetto di scherno da parte di Aristofane, e tutta quella banda di poeti comici mi rovesciò addosso i suoi lazzi velenosi; ma la mia virtù ha ricevuto più luce proprio in grazia di quelle frecciate che pretendevano di colpirla, giacché l’essere messa alla prova davanti agli occhi di tutti lungi dal danneggiarla le ha giovato, e nessuno ne ha compreso la grandezza più di quelli che, attaccandola, ne hanno sentito la forza: chi, infatti, conosce la durezza della selce meglio dei tagliapietre che la lavorano? Io sono come una roccia piantata in una secca, che i marosi flagellano incessantemente da tutte le parti senza però riuscire a smuoverla o ad intaccarla coi loro assalti continui nel lungo corso dei secoli. Saltatemi pure addosso, gettate su di me tutta la vostra furia: vi vincerò sopportandovi. Tutto ciò che si scaglia contro ostacoli saldi e inespugnabili fa uso della forza a proprio danno: cercate dunque un bersaglio facile e malleabile per configgervi le vostre frecce. Vi piace ficcare il naso nei difetti altrui e sputar sentenze su tutti: “Perché questo filosofo ha una casa tanto grande? Perché quest’altro offre pranzi così sontuosi?” Osservate i foruncoli degli altri, mentre voi siete tutta una piaga. è come se uno, divorato da una terribile scabbia, deridesse i nei o le verruche che si trovano su uno splendido corpo. Rinfacciate a Platone di aver cercato denaro, ad Aristotele di averlo accettato, a Democrito di averlo trascurato, ad Epicuro di averlo sperperato; a me rinfacciate pure il comportamento di Alcibiade e di Fedro. Ma il colmo della vostra felicità sarebbe l’imitare, se mai fosse possibile, i miei vizi. Perché, piuttosto, non badate ai vostri mali, che vi affollano da tutte le parti, quali infierendo dall’esterno, quali bruciandovi dentro, fin nel profondo? La condizione umana – anche se a voi risulta poco chiaro il vostro stato – non è così durevole da lasciarvi tempo sufficiente per agitare la lingua, insolentendo i buoni.

XXVIII. Ma tutto questo voi non lo capite, e mostrate un atteggiamento che contrasta con la vostra reale situazione, simili a quella gente che se la spassa nel circo o nel teatro e non sa che frattanto in casa sua è accaduta una disgra zia. Ma io, che guardo le cose dall’alto, vedo quali tempeste vi sovrastano, pronte a vomitare su di voi il loro cumulo oscuro, o, fattesi ancora più vicine, stanno ormai per travolgervi con tutti i vostri averi. Ma che dico? Già in questo momento, per poco che lo sentiate, un turbine fa girare le vostre anime, che cercano di scappare e tuttavia continuano a desiderare quegli stessi vani piaceri, ed ora le solleva verso il cielo, ora le scaraventa nell’abisso»…

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Note:

CAPITOLO I. Gallione è Annèo Novato, il fratello maggiore di Seneca, così chiamato dal nome del retore Giunio Gallione, da cui venne adottato. Stazio lo definisce l’uomo più pacifico e più paziente del mondo. Fu proconsole d’Acaia dal 51 al 53 (come si legge in un’iscrizione di Delfi); Sotto di lui, a Corinto, i Giudei si sollevarono contro S. Paolo e lo trascinarono in tribunale.

Gallione lo difese, dicendo: «Se avesse commesso qualche ingiustizia o qualche grave misfatto, o Giudei, potrei anche ascoltarvi, ma trattandosi di questioni di parole, di nome e della vostra Legge, pensateci voi: io non voglio essere giudice di tali cose».

Fu fatto assassinare da Nerone nel 65.

CAPITOLO II. La clamide potrebbe qui essere riferita ai semplici soldati, la corona ai trionfatori.

CAPITOLO III. La mancanza di ammirazione di cui parla Seneca è la athaumastia della fiìosofia stoica. Oltre a Democrico e ad Eraclito, ne fa cenno Orazio in Epistola I, 6,1: Nihil admirari prope res est una, Numici,/solaque quae possit facere et servare beatum: «Non stupirsi di niente è forse il solo / mezzo, Numicio, a renderci felici».

CAPTOLO V. Anche nel De ira (1,3,6) Seneca esprime lo stesso concetto: Muta animalia humanis affectibus carent; habent autem similes illis quosdam impulsus: gli animali, privi della parola, difettano anche dei sentimenti, che sono propri degli esseri umani, ma hanno certi istinti che gli somigliano.

CAPITOLO V. Il tipo di piacere che qui Seneca combatte, più che di Epicuro, è quello di Aristippo, filosofo di Cirene, per il quale il piacere e l’assenza di bisogni dovevano accompagnarsi ad una grande serenità di spirito. Di lui sappiamo che fu della cerchia di Socrate, assimilato ai sofisti perché dava lezioni dietro ricompensa. Ne parla Platone, nel Teeteto e nel Filebo, sottolineandone l’arguzia e la raffinatezza, nonché Senofonte, nei Memorabili, e Orazio, in Satira 11,3,100 e in Epistole 1,1,18; 17,14,17,23: «Aristippo, pur aspirando al meglio si adattava». (è un po’ quello che Seneca dice del saggio).

CAPITOLO VII. è quanto dice Cicerone di Epicuro: Clamat Epicurus… non posse icunde vivi nisi sapienter honeste iusteque vivatur, nec sapienter honeste iuste nisi iucunde (De finibus, 1,18).

CAPITOLO VII. Cicerone chiama il piacere invidiosum, infame, suspectum anche solo nel nome (De finibus, 111,4).

CAPITOLO IX. Per gli epicurei il ventre era la sede o il punto di diramazione di tutti i piaceri.

CAPITOLO X. Arroganza e superbia erano i vizi attribuiti agli epicurei.

CAPITOLO XI. Nomentano è forse lo stesso personaggio di cui parla Orazio in Satira 1,1,102, e 1,8,11. Apicio fu un famoso esperto d’arte culinaria, noto per la sua ghiottoneria, vissuto sotto Tiberio. Lo stesso Seneca narra che si uccise perché, avendo dissipato in gozzoviglie il suo patrimonio, pur rimanendogliene ancora gran parte, fu preso dal timore di morire di fame. Scrisse un trattato, De re coquinaria, ricettario in 10 libri, una specie di «Artusi». Celebre la

«salsa A», di cui si ignorano gl’ingredienti.

CAPITOLO XIII. Il tamburello era il simbolo dei Galli, sacerdoti di Cibele: perlopiù evirati, indossavano abiti femminili.

CAPITOLO XIV. La citazione è di Virgilio, qui riprodotta non esattamente.

CAPITOLO XV. Per la dedizione del saggio verso gli amici si veda Orazio, Carmina IV, 9,51 seguenti: non ille pro caris amicis/aut patria timidus perire.

CAPITOLO XV. «Segui Dio» è un’antica massima stoica.

CAPITOLO XVII. Delle ricchezze di Seneca parlano anche Tacito (Annali XIII, 42) e Dione Cassio (LXI, 10).

CAPITOLO XVIII. Rutilio Rufo, condannato all’esilio, richiamato in patria da Silla, rifiutò sdegnosamente di ritornarvi. Demetrio è un filosofo cinico, citato spesso da Seneca.

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CAPITOLO XIX. Diodoro era un filosofo epicureo di cui non abbiamo notizie.

«Sono vissuto…»: sono le parole pronunciate da Didone in punto di morte (Eneide, IV, 653); il verso è citato anche nel De beneficiis (V, 17) e nelle Epistulae ad Lucilium (VII,9).

CAPITOLO XX. Gli stoici ammettevano il suicidio. La citazione è di Ovidio (Metamorfosi, II; 328).

CAPITOLO XXI. Curio Dentato e Tiberio Coruncanio, l’uno vincitore dei Sanniti, dei Sabini e di Pirro, l’altro il primo pontefice di origine plebea, erano due esempi di frugalità e di virtù patrie.

Di Catone il Censore (243-149 a.C.) sono note l’integrità morale e la lotta contro l’introduzione in Roma dei molli costumi dei Greci. Era il bisnonno di Catone l’Uticense.

La notizia secondo cui era una colpa possedere poche lamine d’argento si trova anche in Ovidio (Metamorfosi, 1,85: et levis argenti crimen erat).

CAPITOLO XXIV. Il tema delle donazioni è trattato diffusamente nel De Beneficiis. Anche Tacito parla della generosità di Seneca, e Giovenale ne sottolinea la delicatezza: Nemo petit modicis quae mittebantur amicis a Seneca: «Nessuno dovette mai chiedere a Seneca ciò ch’egli donava agli amici di modeste condizioni», nel senso che donava senza darne notizia agli altri (come accenna anche nel De beneficiis).

CAPITOLO XXV. Il ponte Sublicio, il più antico di Roma, era pieno di mendicanti, come apprendiamo anche da Giovenale che nella satira quinta (V. 6 seguenti) ci presenta i mendicanti seduti sopra una stuoia lungo il parapetto del ponte, nell’atto di stendere la mano ai passanti.

CAPITOLO XXVI. Imperat aut servit collecta pecunia cuique: così Orazio in Epistola 1,10,47.

CAPITOLO XXVI. Allusione, forse, a Stilbone di Megara, a cui Seneca, nel De constantia sapientis, V, 6 attribuisce le famose parole: Omnia mea mecum porto: «Tutto quello che ho lo porto con me».

CAPITOLO XXVI. Allusione ai miti di Leda e di Europa, amate e possedute da Zeus sotto le spoglie di un cigno e di un toro, nonché a quello di Ganimede, che il dio rapì nelle vesti di un’aquila.

CAPITOLO XXVI. L’espressione favete linguis si trova anche in Orazio, Carmina III,1,2.

CAPITOLO XXVII. Si riferisce alle Nuvole di Aristofane (450-385), il più grande commediografo dell’antichità, in cui Socrate viene preso in giro.

Anche Eupoli derise il filosofo.

CAPITOLO XXVII. Le notizie sull’atteggiamento di Platone, Aristotele, Democrico ed Epicuro di fronte al denaro, si trovano in Diogene Laerzio.

Quanto a Democrico ne parla Seneca stesso nel De providentia, VI,2.

CAPITOLO XXVIII. Allude all’amore fra giovinetti, da cui, stando a Dione, non sarebbe stato immune nemmeno Seneca, che anche in questo, anzi, avrebbe fatto da maestro a Nerone.